mercoledì 31 dicembre 2014

MESSAGGIO DI FINE ANNO





Domani si concluderà il 2014 un anno che è stato molto difficile per il nostro paese e per la nostra città.
Non voglio scrivere il solito messaggio che invita alla fiducia e all’ottimismo ma preferisco essere oggettivo e dire le cose per come stanno senza addolcire la pillola e senza augurare quel lieto fine che troppo spesso è più una presa in giro che una reale prospettiva.
Iniziato con grandi speranze di ripresa e cambiamento, il 2014 è finito con l’amara presa di coscienza che i bei temi sono passati e non torneranno tanto presto.
Per quanto riguarda la nostra città l’anno 2014 è stato interamente segnato dalla crisi. La città ed i cittadini paiono stanchi e svuotati. Se facciamo un giro per il centro di Udine non possiamo non notare, eccetto quelle poche e rare occasioni di movimento, una città poco popolata, una marea di negozi vuoti e molte strutture sfitte. Lo stato della città non è buono: in pieno centro si vedono crepe e scritte. La città non è più sicura come lo era una volta. Sono aumentati furti, rapine ed alcune zone della città ricordano, anche se ancora molto lontanamente, le periferie di alcune grosse città italiane.
Udine è una città che vivacchia: non cresce, non è viva, propone poco. Non ha fatto quel salto di qualità che dovrebbe e potrebbe fare. Si investe poco nell’immagine della città e si cerca di tirare avanti alla meno peggio facendo lo stretto indispensabile.
All’orizzonte non si vede nulla di veramente nuovo: nessun progetto per migliorare la città e per farla crescere. Nessun servizio che possa alleviare le sofferenze dei cittadini in questo periodo di crisi.
Il 2015 purtroppo non credo sarà molto diverso dall’anno appena trascorso per noi udinesi. Ci aspettano tempi di stagnazione. La disoccupazione e la fuga dei cervelli hanno colpito anche la nostra città: numerose le persone che hanno perso il lavoro e che faticano a trovarne uno nuovo. I disoccupati di lungo periodo sono ormai molti e lo spettro della povertà ha tornato a farsi vivo dopo decenni di benessere e tranquillità.
Molti giovani fuggono da una città e da una regione che sembra dare loro poche prospettive impoverendo un tessuto sociale che ogni anno invecchia sempre di più.
Difficile prevedere una inversione di rotta per il 2015: ci si può aspettare forse solo un contenimento dei danni.
Per quanto riguarda l’Italia il 2014 è iniziato con una ondata di entusiasmo: la vittoria alle primarie di Matteo Renzi e la sua seguente nomina a presidente del consiglio avevano risvegliato in molti italiani la mai sopita speranza che ci si potesse riprendere in tempi brevi dalla crisi economica. Sono bastati pochi mesi perché arrivasse la doccia fredda: Renzi ha messo in cantiere parecchie riforme ma ne ha completate molto poche e la sua opera di rinnovamento va molto a rilento. Gli scandali del Mose, dell’Expo e di Roma Capitale hanno portato alla luce l’immagine di un paese profondamente corrotto e bloccato da rigidi corporativismi.
I dati economici sono peggiorati: il pil chiude in negativo, i consumi sono ridotti al lumicino, i fallimenti delle imprese sono aumentati in gran numero e la disoccupazione è aumentata. I dati sull’occupazione sono forse i più preoccupanti. In particolare ci sono due fasce di cittadini che stanno pagando un prezzo salatissimo: i giovani, colpiti da una disoccupazione altissima, e gli over 40 che perdono il lavoro, che faticano a reinserirsi. I servizi a sostegno di queste categorie non sono riusciti a migliorare la situazione e ogni giorno si ha la sensazione di essere soli, abbandonati e totalmente tagliati fuori dal mercato del lavoro.
Se per gli over 40 esiste il serio rischio di essere tagliati fuori per sempre dal mercato del lavoro, i giovani rischiano di non entrarci mai. Una intera generazione, quella nata tra l’inizio degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, si è vista scippare il proprio futuro con scarse possibilità di trovare un lavoro.
L’Italia è un paese che ha completamente mancato il passaggio dalla old alla new economy: non c’è stata alcuna riconversione industriale ed i posti di lavoro persi sono rimasti tali. Il problema si è all’inizio manifestato con il precariato e la produzione di posti di lavoro di bassa qualità per poi sfociare nella disoccupazione dilagante. Disoccupazione che non risparmia nessuno neppure le persone più specializzate che in molti casi pagano dazio salato.
Ma ciò che ancora più grave è la crisi morale che sta attraversando il nostro paese. Viviamo in una società estremamente corrotta e bloccato in cui il merito non viene più riconosciuto e l’ascensore sociale è di conseguenza bloccato. Sono venuti a mancare alcuni valori fondamentali come la cultura del lavoro (sostituita da una fredda e grezza cultura del profitto a tutti i costi) ed il senso civico (sostituito da un bieco egoismo e menfreghismo). Manca anche la cultura delle responsabilità individuale. L’impunità, iniziata per giustificare le malefatte dei potenti, si è ora estesa a tutta la società a tal punto che nessuno si sente più responsabile di niente.
La responsabilità non è solo della classe dirigente ma anche nostra. C’è un problema di mentalità nel nostro paese. Da più di vent’anni ci siamo seduti. Abbiamo pensato che il mondo per come l’abbiamo conosciuto dagli anni sessanta fino ad oggi sarebbe durato in eterno. Che nessuno avrebbe potuto toglierci quel benessere faticosamente conquistato nei decenni precedenti. La crisi ha letteralmente mandato in fumo questo tipo di mentalità costringendoci ripensare un nuovo patto sociale che però ancora stenta a venire fuori. Se infatti è ormai chiaro che l’Italia debba essere ricostruita, non è ancora chiara la direzione da prendere. In ogni caso la ripresa non sarà faccenda di breve periodo: una volta decisa la direzione da prendere, ci vorranno almeno cinque anni per vedere i primi benefici ed altrettanti per una vera e propria ripresa. Non esistono trucchi o facili vie d’uscita a crisi strutturali come la nostra.
A pagare dazio per questa grave crisi economica e morale saranno soprattutto i giovani nati negli anni 80 e 90 che saranno letteralmente costretti ad arrangiarsi inventandosi un lavoro che non c’è oppure, come i loro nonni, saranno costretti a fare le valige abbandonando il loro paese e la loro città in cerca di maggiore fortuna altrove. Pagheranno dunque coloro che sono meno colpevoli di questa situazione e che solo ora si affacciano ad un mondo che ha ben poco da dare loro.
Dal punto di vista internazionale il 2014 è stato un anno intenso che ha palesato uno scenario chiaro da anni: il mondo della guerra fredda ed il breve periodo dell’unipolarismo sono definitivamente passati alla storia. La grande stabilità che caratterizzava il mondo bipolare è definitivamente finita per essere sostituita da un epoca di grande incertezza e competizione internazionale. A cent’anni dalla fine della Belle Epoque la storia si ripete ed il mondo ritorna ad essere multipolare.
Esistono almeno una ventina di potenze in lotta tra di loro per acquisire, mantenere o aumentare il proprio potere. Gli Stati Uniti, archiviato il sogno di essere una superpotenza, hanno più realisticamente puntato a mantenere il ruolo di grande potenza difendendo la loro posizione di potere. Con la rivoluzione dello shale oil ed il definitivo superamento della crisi economica gli USA sembrano essere in pole position per confermarsi come la potenza dominante in occidente. Nel caso Obama riuscisse a far entrare il Giappone nel TPP e contemporaneamente a concludere il TTIP con i paesi europei, la questione della supremazia Usa in occidente potrebbe dirsi definitivamente archiviata almeno per un mezzo secolo.
Il 2014 ha confermato anche l’aumento dell’importanza dell’area del Pacifico rispetto a quella dell’Atlantico. Se infatti l’Europa è un continente in crisi, non lo stesso si può dire per la movimentata area del Pacifico. La Cina è infatti ormai una potenza conclamata non solo dal punto di vista economico ma anche politico e militare. Anche l’India sta muovendo importanti passi verso un maggior sviluppo economico anche se al momento sembra essere ancora un gradino sotto il livello della Cina. Il Giappone, dopo mezzo secolo di dipendenza dagli Usa, spaventato dall’emergere di tante potenze, sta cercando di acquisire un ruolo di maggiore peso: la revisione dell’articolo costituzionale che impedisce al Giappone di avere un proprio esercito è sempre più messo in discussione. Gli americani acconsentono in silenzio perché hanno bisogno di un alleato forte nel Pacifico ed il Giappone sembra essere il candidato migliore. Dal punto di vista economico il paese sta sperimentando la cura della Abenomics i cui risultati però sono necessariamente legati a importanti riforme strutturali non ancora attuati.
Tra i paesi emergenti ha fatto capolino l’Indonesia che per la prima volta quest’anno ha superato l’Italia in termini di PIL. Un buon risultato per un paese che fino a 30 anni fa era continuamente sull’orlo della guerra civile.
Tra tutte le potenze quella che più di tutte rischia di perdere il proprio status è proprio l’Italia: per onesta bisogna ammettere che nemmeno Francia e Russia se la passano bene ma mentre il declino di queste nazioni è molto lento e tutt’altro che scontato, l’Italia sta avendo una caduta verticale molto preoccupante.
Nel 1990 l’Italia, pur con tutti i limiti di un paese sconfitto era riuscita a diventare la settima potenza economica mondiale e la terza potenza in Europa. Oggi invece è un paese stanco e prostrato da una crisi lunga e severa. Da una crescita che non c’è da almeno 20 anni e con il morale completamente a terra. Forse più di ogni altro paese l’Italia rischia di sprofondare nell’anonimato.
Esiste infine una potenza non pervenuta: l’Unione Europea. Priva di reale peso nelle trattative internazionali dove spesso nemmeno vuole cominciare la partita e incapace di risolvere i problemi creati dalla crisi economica, l’Ue si dimostra un gigante con i piedi di argilla. Bloccata nella sua integrazione, è troppo integrata per essere una semplice organizzazione internazionale e troppo poco sviluppata per considerarsi uno stato. Se non saprà venire fuori da questa situazione rischierà di perdere ogni considerazione da parte dei cittadini e soprattutto di quei cittadini dei paesi che più di altri stanno soffrendo la crisi. Se il decennio 2010-2020 si trasformasse in un decennio perduto la responsabilità sarebbe anche della UE. Ed in un mondo frenetico ed in continua lotta come quello attuale, sarebbe un errore imperdonabile. 

D.Deotto

giovedì 18 dicembre 2014

LA RUSSIA IL GIGANTE DAI PIEDI DI ARGILLA





Uno stato di cui si parla molto negli ultimi tempi è la Russia. Essa in passato ha ricoperto senz’altro un ruolo di primo piano in politica internazionale almeno fino al 1989. Oggi il suo interventismo in politica estera (vedi caso Ucraina, Siria e Georgia) ed il forte carisma del suo presidente Vladimir Putin sembravano aver riportate in auge il gigante russo. Tutto ciò accade nonostante in Russia vi siano ancora evidenti segni di problemi dal punto di vista della politica e dell’economia.
A questo punto è lecito chiedersi: la Russia sta riemergendo come potenza oppure sta solo proseguendo nel suo declino iniziato nel 1989?
Iniziamo analizzando brevemente la storia del paese. Fino al XVIII secolo la Russia rimase abbastanza marginale nel gioco delle potenze in quanto impegnata a consolidare la propria posizione ai danni della Svezia e dell’Impero ottomano.
Già dopo il 1720 la Russia era diventato un attore di primo piano ed il suo potere aumentò ulteriormente dopo le guerre napoleoniche. La sconfitta nella guerra di Crimea, nella guerra russo-giapponese ed infine nella Grande Guerra ridimensionarono ma non diminuirono la forza del paese, che comunque rimase tra gli attori principali della politica internazionale. La vittoria nella Seconda Guerra Mondiale consacrò la Russia come superpotenza permettendole un rapidissimo sviluppo economico e una posizione di primo piano in ambito internazionale. Alla fine degli anni 70 sembrava addirittura che la Russia fosse capace di superare gli USA e di vincere la Guerra Fredda. Negli anni ’80 iniziò un lento ma progressivo declino che nel giro di dieci anni portò il paese al collasso completo. Nel 1989 si chiuse l’esperienza comunista e la Russia venne molto ridimensionata come potenza. Da seconda potenza mondiale e principale competitor degli Usa per la supremazia venne declassata a potenza di rango regionale che per più di dieci anni fu totalmente assente sullo scenario internazionale.
Nel 1997 la Russia fu colpita da una durissima crisi economica che portò al collasso l’intero sistema bancario. Borsi Elstin, leader che aveva guidato la Russia dal 1991, venne sostituito dall’allora astro nascente Vladimir Putin. Quest’ultimo sembrava in grado di porre fine al declino della Russia e rilanciarla come grande potenza ma dopo più di dieci anni dalla sua comparsa sulla scena politica possiamo dire che il leader russo è riuscito a frenare il veloce declino del suo paese ma non ad arrestarlo e tantomeno ad invertire la rotta.
Ancora oggi la Russia conserva tre importanti difetti: un sistema politico molto centralizzato e corrotto, mancanza di variabilità politica ed una economia poco diversificata completamente dipendente dall’export di materie prime. E’ così bastata una caduta dei prezzi del petrolio per mettere in seria difficoltà il gigante russo.
Non solo politica ed economia ma il declino russo è visibile anche nella società: un tasso demografico estremamente basso, un mancato ricambio della classe dirigente ed una società bloccata in cui il divario delle opportunità e nella distribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri è molto alto.
Putin, infatti, per quanto carismatico e più capace dei suoi predecessori, è essenzialmente un uomo della vecchia guardia. E’ cresciuto nel KGB e si nutre di quel tipico nazionalismo che ha accompagnato il suo paese durante tutta l’avventura comunista. Non è infatti un caso che Putin si appoggi a uomini e persone in qualche modo legate al vecchio regime ed alla vecchia mentalità. La capacità di Putin è stata quella di riportare ordine in Russia e di saper tenere meglio al guinzaglio gli oligarchi. Tutto però nella logica di una sostanziale mancanza di pluralismo e democrazia. Non possiamo infatti dimenticare che il governo russo è sospettato di essere fortemente implicato nell’omicidio di un giornalista oltre che nella sistematica violazione dei diritti civili delle minoranze. Da non dimenticare anche la protezione accordata a Semion Mogilevich uno dei dieci criminali più ricercati del mondo.
Svariati anni fa l’economista ed ex ministro Andrei Belousov affermò che una crescita foraggiata esclusivamente sugli idrocarburi sarebbe stato un modello fallimentare e che per garantirsi un futuro florido e stabile la Russia dovrebbe varare radicali riforme come: lotta alla corruzione, maggiore indipendenza del potere giudiziario, semplificazione, maggiore certezza del diritto e lotta contro lo strapotere della burocrazia. Il problema è che tutte queste riforme avrebbero come conseguenza la fine del potere della nomenclatura russa con conseguente apertura di tutte le posizioni di vertice. Cosa senz’altro non gradita dal governo che invece poggia il proprio potere quasi esclusivamente su funzionari ancora legati alla mentalità sovietica o comunque legati a posizioni di privilegio.
La società russa è ancora oggi una società bloccata, dove il merito non viene adeguatamente riconosciuto e dove una piccola oligarchia controlla la maggior parte delle risorse del paese ed è immensamente più ricca della maggior parte della popolazione.
La mentalità di Putin non si pone in discontinuità con quella che è stata anche in passato la concezione del potere in Russia ovvero l’oligarchia. Non solo non si tratta di un modello assimilabile a quello delle democrazie occidentali ma non risulta essere esportabile o desiderabile per altri paesi.
In conclusione si può affermare che la Russia sta continuando su quella strada di lento declino che la sta portando ad essere un paese progressivamente meno potente in ambito internazionale.
Esattamente come l’impero romano ci mise quasi due secoli per disgregarsi, la Russia sta piano piano perdendo l’immenso potere che era venuta ad avere dopo la Seconda guerra Mondiale.
Intendiamoci bene, la Russia ha tutte le risorse umane e materiale per poter aspirare ad essere un potenza ma è frenata da una classe dirigente corrotta e dotata di mentalità obsoleta. 
Questo la rende molto esposta ai "cigni neri" ovvero eventi imprevisti che ricoprono però una ruolo sproporzionato rispetto al proprio reale valore e che vengono razionalizzati a posteriori. Ed è proprio questo quello che probabilmente succederà: la Russia viene colpita in maniera particolarmente dura dall'evento imprevisto dell'abbassamento dei costi del petrolio. Il governo per difendersi punterà tutto sul nazionalismo e sulle teoria del complotto al fine di generare consenso senza però risolvere eventuali problemi strutturali. 

D.Deotto

lunedì 15 dicembre 2014

LE OLIMPIADI DI ROMA 2024: UN'ALTRA OCCASIONE PER SPRECARE RISORSE





Mentre l’economia italiana è ancora ben distante dal riprendersi, il premier Renzi annuncia di volere le olimpiadi a Roma per il 2024.
Si tratta di un modo come un altro per sperperare risorse pubbliche e per applicare strategie economiche fallimentari.
L’economia italiana è sempre stata funestata da uno strano interventismo economico, che, in ultima analisi, è una distorsione delle teorie keynesiane.
Tale interventismo si basava su due pilastri: il finanziamento pubblico delle imprese non competitive e l’avvio delle “grandi opere”.
Questa dannosa mentalità si è rivelata fallimentare perché non ha risolto i problemi del paese e perché inadeguata al mondo globalizzato, dove parametri come efficienza produttiva e competitività sono fondamentali.
L’organizzazione delle olimpiadi da parte della città di Roma era già stata affossata giustamente da Monti nel corso del proprio mandato. Oggi viene proposta da Renzi come una possibile soluzione per il rilancio della nostra economia.
In realtà Renzi con queste affermazioni dimostra di non volersi porre in discontinuità con le politiche economiche del passato da anzi di tentare di recuperarle.
Ci sono validi motivi per affermare che le olimpiadi del 2014 non saranno di alcun aiuto per il paese e per la città di Roma ma anzi saranno l’occasione per ulteriori sprechi di denaro pubblico.
Esperienze recenti dimostrano come i grandi eventi sportivi possono nuocere all’economia favorendo la speculazione edilizia, la corruzione e gli sprechi.
Cito tre esempi tratti dall’articolo “Da Atene a Sochi, lo sport che fa male all’economia” uscito su Linkiesta il 08/02/2014.
-          ATENE 2004: lo stato greco spese circa 10 miliardi di euro (il doppio del previsto) per la costruzione di impinti, aereoporti, linee della metropolitana facendo impennare il deficit del 2004 al 6,1% ed il debito pubblico al 110%. Le nuove infrastrutture rimasero in gran parte inutilizzate gravando però per 600 milioni di euro l’anno sul bilancio dello stato. Nel 2005 la commissione europea mise la Grecia sotto monitoraggio per deficit eccessivo. Mario Monti ha più volte affermato che furono proprio le olimpiadi di Atene l’inizio della fine per lo stato ellenico.
-          ITALIA 90: Lo stato italiano spese centinaia di miliardi di lire per costruire impianti ed infrastrutture che già dopo la fine della manifestazione risultavano inadeguate se non proprio inutili. Da citare lo stadio Sant’Elia di Bari (sproporzionato per le esigenze della città), lo stadio Delle Alpi (raso al suolo dopo neanche vent’anni), oppure l’albergo Ponte Lambro nemmeno mai terminato.
-          PECHINO 2008: la Cina non ha mai diffuso dati ufficiali ma secondo la Banca Mondiali sono stati spesi circa 40 miliardi di dollari. Sebben la Cina abbia goduto di un ritorno d’immagine non indifferente, non va dimenticato che l’evento provocò una bolla immobiliare ed una urbanizzazione non sostenibile del territorio.
In breve, la realtà ci dimostra che in determinate circostanze la grandi opere o i grandi eventi sportivi non favoriscono la crescita ma al contrario producono debiti e complicazioni soprattutto in paesi con problemi di competitività e di corruzione.
Soltanto il Regno Unito, almeno fino ad ora, ha dimostrato una certa capacità nel saper gestire eventi di questo tipo.
Il governatore della banca centrale brasiliana ha espresso serie preoccupazioni per gli eventi sportivi che si sono tenuti e si terranno nel suo paese nel 2014 e nel 2016 poiché già vi sono evidenti segni di non sostenibilità oltre che gravi problemi sociali.
Il premier farebbe bene a frenare gli entusiasmi ed a mantenere i piedi per terra: l’Italia non ha bisogno di spese faraoniche per costruire impianti inutili ma di una ristrutturazione completa della spesa al fine di ammodernare il territorio e favorire l’occupazione sul lungo termine.
Tutte azioni che fino ad ora questo governo si è ben guardato dal fare ponendosi in piena continuità con politiche economiche che hanno rovinato il paese.
L’Italia dovrebbe utilizzare meglio i soldi che ha anziché sprecarli a vantaggio di pochi privilegiati. 

D.Deotto