Domani si concluderà il 2014 un anno che è stato molto
difficile per il nostro paese e per la nostra città.
Non voglio scrivere il solito messaggio che invita alla
fiducia e all’ottimismo ma preferisco essere oggettivo e dire le cose per come
stanno senza addolcire la pillola e senza augurare quel lieto fine che troppo
spesso è più una presa in giro che una reale prospettiva.
Iniziato con grandi speranze di ripresa e cambiamento, il
2014 è finito con l’amara presa di coscienza che i bei temi sono passati e non
torneranno tanto presto.
Per quanto riguarda la nostra città l’anno 2014 è stato
interamente segnato dalla crisi. La città ed i cittadini paiono stanchi e
svuotati. Se facciamo un giro per il centro di Udine non possiamo non notare,
eccetto quelle poche e rare occasioni di movimento, una città poco popolata,
una marea di negozi vuoti e molte strutture sfitte. Lo stato della città non è
buono: in pieno centro si vedono crepe e scritte. La città non è più sicura
come lo era una volta. Sono aumentati furti, rapine ed alcune zone della città
ricordano, anche se ancora molto lontanamente, le periferie di alcune grosse
città italiane.
Udine è una città che vivacchia: non cresce, non è viva,
propone poco. Non ha fatto quel salto di qualità che dovrebbe e potrebbe fare.
Si investe poco nell’immagine della città e si cerca di tirare avanti alla meno
peggio facendo lo stretto indispensabile.
All’orizzonte non si vede nulla di veramente nuovo: nessun
progetto per migliorare la città e per farla crescere. Nessun servizio che
possa alleviare le sofferenze dei cittadini in questo periodo di crisi.
Il 2015 purtroppo non credo sarà molto diverso dall’anno
appena trascorso per noi udinesi. Ci aspettano tempi di stagnazione. La
disoccupazione e la fuga dei cervelli hanno colpito anche la nostra città:
numerose le persone che hanno perso il lavoro e che faticano a trovarne uno
nuovo. I disoccupati di lungo periodo sono ormai molti e lo spettro della
povertà ha tornato a farsi vivo dopo decenni di benessere e tranquillità.
Molti giovani fuggono da una città e da una regione che
sembra dare loro poche prospettive impoverendo un tessuto sociale che ogni anno
invecchia sempre di più.
Difficile prevedere una inversione di rotta per il 2015: ci
si può aspettare forse solo un contenimento dei danni.
Per quanto riguarda l’Italia il 2014 è iniziato con una
ondata di entusiasmo: la vittoria alle primarie di Matteo Renzi e la sua
seguente nomina a presidente del consiglio avevano risvegliato in molti
italiani la mai sopita speranza che ci si potesse riprendere in tempi brevi
dalla crisi economica. Sono bastati pochi mesi perché arrivasse la doccia
fredda: Renzi ha messo in cantiere parecchie riforme ma ne ha completate molto
poche e la sua opera di rinnovamento va molto a rilento. Gli scandali del Mose,
dell’Expo e di Roma Capitale hanno portato alla luce l’immagine di un paese
profondamente corrotto e bloccato da rigidi corporativismi.
I dati economici sono peggiorati: il pil chiude in negativo,
i consumi sono ridotti al lumicino, i fallimenti delle imprese sono aumentati
in gran numero e la disoccupazione è aumentata. I dati sull’occupazione sono
forse i più preoccupanti. In particolare ci sono due fasce di cittadini che
stanno pagando un prezzo salatissimo: i giovani, colpiti da una disoccupazione
altissima, e gli over 40 che perdono il lavoro, che faticano a reinserirsi. I
servizi a sostegno di queste categorie non sono riusciti a migliorare la
situazione e ogni giorno si ha la sensazione di essere soli, abbandonati e
totalmente tagliati fuori dal mercato del lavoro.
Se per gli over 40 esiste il serio rischio di essere
tagliati fuori per sempre dal mercato del lavoro, i giovani rischiano di non
entrarci mai. Una intera generazione, quella nata tra l’inizio degli anni 80 e
l’inizio degli anni 90, si è vista scippare il proprio futuro con scarse
possibilità di trovare un lavoro.
L’Italia è un paese che ha completamente mancato il passaggio
dalla old alla new economy: non c’è stata alcuna riconversione industriale ed i
posti di lavoro persi sono rimasti tali. Il problema si è all’inizio
manifestato con il precariato e la produzione di posti di lavoro di bassa
qualità per poi sfociare nella disoccupazione dilagante. Disoccupazione che non
risparmia nessuno neppure le persone più specializzate che in molti casi pagano
dazio salato.
Ma ciò che ancora più grave è la crisi morale che sta attraversando
il nostro paese. Viviamo in una società estremamente corrotta e bloccato in cui
il merito non viene più riconosciuto e l’ascensore sociale è di conseguenza
bloccato. Sono venuti a mancare alcuni valori fondamentali come la cultura del
lavoro (sostituita da una fredda e grezza cultura del profitto a tutti i costi)
ed il senso civico (sostituito da un bieco egoismo e menfreghismo). Manca anche
la cultura delle responsabilità individuale. L’impunità, iniziata per
giustificare le malefatte dei potenti, si è ora estesa a tutta la società a tal
punto che nessuno si sente più responsabile di niente.
La responsabilità non è solo della classe dirigente ma anche
nostra. C’è un problema di mentalità nel nostro paese. Da più di vent’anni ci
siamo seduti. Abbiamo pensato che il mondo per come l’abbiamo conosciuto dagli
anni sessanta fino ad oggi sarebbe durato in eterno. Che nessuno avrebbe potuto
toglierci quel benessere faticosamente conquistato nei decenni precedenti. La
crisi ha letteralmente mandato in fumo questo tipo di mentalità costringendoci
ripensare un nuovo patto sociale che però ancora stenta a venire fuori. Se
infatti è ormai chiaro che l’Italia debba essere ricostruita, non è ancora
chiara la direzione da prendere. In ogni caso la ripresa non sarà faccenda di
breve periodo: una volta decisa la direzione da prendere, ci vorranno almeno
cinque anni per vedere i primi benefici ed altrettanti per una vera e propria
ripresa. Non esistono trucchi o facili vie d’uscita a crisi strutturali come la
nostra.
A pagare dazio per questa grave crisi economica e morale
saranno soprattutto i giovani nati negli anni 80 e 90 che saranno letteralmente
costretti ad arrangiarsi inventandosi un lavoro che non c’è oppure, come i loro
nonni, saranno costretti a fare le valige abbandonando il loro paese e la loro
città in cerca di maggiore fortuna altrove. Pagheranno dunque coloro che sono
meno colpevoli di questa situazione e che solo ora si affacciano ad un mondo
che ha ben poco da dare loro.
Dal punto di vista internazionale il 2014 è stato un anno
intenso che ha palesato uno scenario chiaro da anni: il mondo della guerra
fredda ed il breve periodo dell’unipolarismo sono definitivamente passati alla
storia. La grande stabilità che caratterizzava il mondo bipolare è definitivamente
finita per essere sostituita da un epoca di grande incertezza e competizione
internazionale. A cent’anni dalla fine della Belle Epoque la storia si ripete
ed il mondo ritorna ad essere multipolare.
Esistono almeno una ventina di potenze in lotta tra di loro
per acquisire, mantenere o aumentare il proprio potere. Gli Stati Uniti,
archiviato il sogno di essere una superpotenza, hanno più realisticamente
puntato a mantenere il ruolo di grande potenza difendendo la loro posizione di
potere. Con la rivoluzione dello shale oil ed il definitivo superamento della
crisi economica gli USA sembrano essere in pole position per confermarsi come
la potenza dominante in occidente. Nel caso Obama riuscisse a far entrare il
Giappone nel TPP e contemporaneamente a concludere il TTIP con i paesi europei,
la questione della supremazia Usa in occidente potrebbe dirsi definitivamente
archiviata almeno per un mezzo secolo.
Il 2014 ha confermato anche l’aumento dell’importanza
dell’area del Pacifico rispetto a quella dell’Atlantico. Se infatti l’Europa è
un continente in crisi, non lo stesso si può dire per la movimentata area del
Pacifico. La Cina è infatti ormai una potenza conclamata non solo dal punto di
vista economico ma anche politico e militare. Anche l’India sta muovendo
importanti passi verso un maggior sviluppo economico anche se al momento sembra
essere ancora un gradino sotto il livello della Cina. Il Giappone, dopo mezzo
secolo di dipendenza dagli Usa, spaventato dall’emergere di tante potenze, sta
cercando di acquisire un ruolo di maggiore peso: la revisione dell’articolo
costituzionale che impedisce al Giappone di avere un proprio esercito è sempre
più messo in discussione. Gli americani acconsentono in silenzio perché hanno
bisogno di un alleato forte nel Pacifico ed il Giappone sembra essere il
candidato migliore. Dal punto di vista economico il paese sta sperimentando la
cura della Abenomics i cui risultati però sono necessariamente legati a
importanti riforme strutturali non ancora attuati.
Tra i paesi emergenti ha fatto capolino l’Indonesia che per
la prima volta quest’anno ha superato l’Italia in termini di PIL. Un buon
risultato per un paese che fino a 30 anni fa era continuamente sull’orlo della
guerra civile.
Tra tutte le potenze quella che più di tutte rischia di
perdere il proprio status è proprio l’Italia: per onesta bisogna ammettere che
nemmeno Francia e Russia se la passano bene ma mentre il declino di queste
nazioni è molto lento e tutt’altro che scontato, l’Italia sta avendo una caduta
verticale molto preoccupante.
Nel 1990 l’Italia, pur con tutti i limiti di un paese
sconfitto era riuscita a diventare la settima potenza economica mondiale e la
terza potenza in Europa. Oggi invece è un paese stanco e prostrato da una crisi
lunga e severa. Da una crescita che non c’è da almeno 20 anni e con il morale
completamente a terra. Forse più di ogni altro paese l’Italia rischia di
sprofondare nell’anonimato.
Esiste infine una potenza non pervenuta: l’Unione Europea.
Priva di reale peso nelle trattative internazionali dove spesso nemmeno vuole
cominciare la partita e incapace di risolvere i problemi creati dalla crisi
economica, l’Ue si dimostra un gigante con i piedi di argilla. Bloccata nella
sua integrazione, è troppo integrata per essere una semplice organizzazione
internazionale e troppo poco sviluppata per considerarsi uno stato. Se non
saprà venire fuori da questa situazione rischierà di perdere ogni
considerazione da parte dei cittadini e soprattutto di quei cittadini dei paesi
che più di altri stanno soffrendo la crisi. Se il decennio 2010-2020 si
trasformasse in un decennio perduto la responsabilità sarebbe anche della UE.
Ed in un mondo frenetico ed in continua lotta come quello attuale, sarebbe un
errore imperdonabile.
D.Deotto
Bravo Daniele, analisimeticolosa. Urge chirurgia e terapia. Auguri Italia! Luigi
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