domenica 29 giugno 2014

FRIULI: IL PUNTO DELLA SITUAZIONE




Il 28 Giugno 2014 presso il santuario del Monte Lussari nei pressi di Tarvisio si è svolta una cerimonia a cui ha preso parte il principe Giorgio d’Asburgo-Lorena discendente diretto degli imperatori d’Austria.
Si è trattato di una cerimonia in ricordo dell’arciduca Francesco Ferdinando e Sofia, uccisi un secolo fa a Sarajevo in un attentato che è passato alla storia come l’evento scatenante della Grande Guerra.
Il santuario del monte Lussari ha un significato simbolico molto importante perché lì troviamo sepolti i caduti di tre popoli, un tempo in guerra tra loro oggi invece alleati.
Giorgio d’Asburgo oggi ricopre il ruolo di ambasciatore ungherese presso l’Unione Europea ed ha approfittato della situazione per tenere un discorso nel quale ha promosso la creazione di una “Europa dei popoli” molto diversa da quella attuale più orientata in senso burocratico.
Il sindaco di Tarvisio è intervenuto per ricordare come l’Impero prima ed il Regno d’Italia in seguito avessero concesso delle condizioni economiche di vantaggio ai territori di confine al fine di garantire lo sviluppo. Occasione per chiedere a Roma l’applicazione di una fiscalità di favore nei confronti di un territorio che soffre la concorrenza di un vicino avente pressione fiscale molto più bassa della nostra.
Lo sviluppo della montagna è uno dei temi più complessi riguardanti la nostra regione: la zona del Tarvisiano e della Carnia sta vivendo un momento molto difficile reso ancora peggiore dalla crisi economica.
Il fatto di vivere nel paese con la pressione fiscale più alta del mondo di certo non aiuta: la vicina Carinzia, anch’essa alle prese con la crisi economica, ha varato un programma di riduzioni fiscali a tutto vantaggio delle imprese che possono lì insediarsi a condizioni molto vantaggiose.
Il risultato è stato una crescente delocalizzazione delle imprese friulane in Austria con relativo danno per l’economia regionale.
Molti imprenditori, piccoli artigiani e commercianti hanno infatti deciso di trasferirsi in Carinzia popolando la città austriaca di Villach di una miriade di imprese italiane in fuga.
Condizioni particolari dovrebbero suggerire soluzioni particolari per fronteggiare le emergenze: il Friuli è una zona di confine e gode di problemi particolari che meriterebbero soluzioni specifiche.
Effettivamente la pressione fiscale slovena ed austriaca è nettamente più bassa rispetto a quella vigente nel nostro paese e questo indubbiamente favorisce la delocalizzazione spesso voluta dagli stessi lavoratori che, vista la vicinanza al confine, non devono nemmeno subire il trauma di una emigrazione.
I friulani che lavorano in imprese italiane situate in Carinzia sono infatti un buon numero: si tratta di persone normalissime tutt’altro che spaventate da questa situazione perché la vicinanza del laender austriaco non costringe loro a tagliare i ponti con la realtà in cui sono nati. Essi possono comodamente lavorare in Austria e prendere casa in Italia o comunque possono rientrare il fine settimana senza dover sconvolgere troppo la propria vita.
Questa situazione non è positiva per la nostra regione perché queste realtà produttive farebbero sicuramente più comodo all’interno dei confini nazionali.
Diventa quindi logico chiedersi perchè nessuno abbia mai pensato ad una fiscalità agevolata per le imprese friulane al fine di fronteggiare la concorrenza austriaca.
Gli sgravi fiscali potrebbero concretizzarsi in due modi: sfruttare lo statuto speciale per ottenere da Roma condizioni di fiscalità agevolata. Tutte le imprese situate in Friuli Venezia Giulia godrebbero quindi di una minore pressione fiscale. Questo provvedimenti, affiancato ad ulteriori agevolazioni per le nuove imprese, potrebbe essere un toccasana per l’economia friulana.
Una seconda misura potrebbe essere la creazione di zone economiche esclusive situate in punti strategici al fine di attrarre gli investimenti in regione. Le aziende situate in questi distretti godrebbero di condizioni fiscali super-agevolate e potrebbero crescere al riparo dalla concorrenza austriaca.
Una simile manovra determinerebbe comunque uno spostamento delle imprese ma quantomeno impedirebbe la delocalizzazione in Austria mentendo il lavoro sul suolo nazionale con gran sollievo dei friulane che non sarebbero più costretti a fare i transfrontalieri.
Queste proposte possono essere delle soluzioni utili al fine di superare la crisi economica. Resta solo da vedere se esiste la volontà politica di implementarle.

D.Deotto.

venerdì 27 giugno 2014

LO SPETTRO DEL DEFAULT PER L'ARGENTINA


L'argentina è stata uno dei paesi più ricchi del Sud America nel corso della prima parte del XX secolo tanto che il reddito pro caite dei suoi cittadini non era troppo diverso da quello europeo.
Con l'inizio della guerra fredda il paese sudamericano ha lentamente iniziato il suo declino: instabilità politica, corruzione, dittatura e politiche economiche dannose hanno portato il paese ad uno stato di crisi permanente che ancora oggi non è stato risolto.
Tra il 1976 ed il 1983 fu imposta al paese da una dittatura militare una politica di stampo neoliberale che ebbe l'unico effetto di dissanguare le imprese ed aumentarela disoccupazione.
Il ritorno alla democrazia portò con se nuove politiche economiche che però ebbero come risultato una iperinflazione del 200%. Si formò un nuovo governo che tramite il ministro delle finanze Domingo Cavallo decise di cambiare moneta e di imporre un tasso di cambio fisso nei confronti del dollaro. Inizialmente questa soluzione si rivelò efficace riuscendo a diminire in tempi rapidi l'iperinflazione. Il paese però continuava ad essere colpito dalla corruzione e dall'evasione fiscale.
Come se non bastasse l'Argentina aveva un debito pubblico molto alto quasi tutto collocato all'estero.
Negli anni '90 il dollaro fu rivalutato e l'argentina si trovò agganciata ad una moneta troppo forte rispetto alla propria economia. Questo cominciò a rendere le importazioni più convenienti rispetto alle esportazioni determinando una fuoriuscita di capitali che danneggiava le imprese locali.
Il tasso di disoccupazione si alzò bruscamente e l'economia passo dalla stagnazione allo spettro della deflazione.
Nel frattempo il governo argentino di rifiutò di porre fine al regime di tasso di cambio fisso considerandolo erroneamente un suicidio. Il perdurare di questa situazione portò alla bancarotta del 2002. Con il default ebbe fine anche la politica dei tassi di cambio fissi.
Il paese entrò però in un periodo difficile in cui molte imprese, anche grosse, fallirono e molte andarono vicinissime al fallimento. Il tasso di disoccupazione elevato costrinse le persone a vivere di espedienti. Solo nel 2005 si arrivò ad un accordo per la ristrutturazione del debito che prevedeva che il 76% dei titoli oggetto di default fosse rimpiazzato da altri con un valore nominale molto più basso (25-35% dell'originale) e scadenze più lunghe. Il FMI criticò duramente questo piano di rientro ma il governo argentino decise di procedere comunque.
La storia non finisce qui: l'Argentina nel 2008 richiese un nuovo accordo per rinegoziare il pagamento dei debiti. Era evidente la volontà del governo argentino di ottenere condizioni più vantaggiose per affrontare una situazione che comunque rimaneva difficile.
L'Argentina oggi rischia di nuovo il default perchè la corte suprema americana ha respinto il ricorso della presidente Kirchner che prevedeva lo stop al rimborso degli hedge found.
La situazione all'interno del paese rimane critica: dopo il default del 2002 c'è stato una lieve ripresa ma tutti i problemi strutturali del paese rimangono intatti: tasso di inflazione elevato, disoccupazione alta ed evasione fiscale enorme.
Il governo della presidente Kirchner ha erroneamente pensato di poter risollveare le sorti del paese solo attraverso politiche monetarie più favorevoli senza procedere a riforme strutturali che invece sono necessarie.
Il risultato è che il paese oggi si trova sull'orlo di un nuovo fallimento e coinvolto in una crisi che sembra essere senza fine.


D.Deotto.

domenica 22 giugno 2014

PALAZZO EX UPIM E LA DECEDENZA DEL CENTRO



L’imprenditore Marco de Eccher ha annunciato che l’intervento di ristrutturazione del palazzo dell’Upim che avrebbe dovuto portare il nome del architetto Rafael Moneo non avverrà.
Obiettivo dell’imprenditore udinese era la riqualificazione di un edificio che non è mai piaciuto troppo ai cittadini udinesi. Il palazzo fu infatti costruito nel 1956 al posto di un teatro in stile liberty.
In molti speravano in un profondo intervento di riqualificazione ma tali speranze sono state stroncate dalla sopraintendenza architettonica. Essa infatti ha bocciato un primo progetto di Moneo giudicandolo troppo impattante. Dopo mesi di trattative era stato presentato un nuovo progetto che tenesse maggiormente in considerazioni la troppo restrittiva burocrazia ma alla fine i compromessi da prendere sarebbero stati così tanti da snaturare completamente il progetto. Alla fine il tutto era diventato poco conveniente per la stessa impresa che ha deciso di abbandonare il progetto.
Il gruppo Rizzani de Eccher investì 20 milioni nel 2009 per l’acquisto del edificio e si tratta di molti soldi che oggi pesano sulla cittadinanza sotto forma di tasse e spese di manutenzione.
A questo punto in assenza di adeguati stimoli è possibile che l’azienda udinese si limiti ad una banale ristrutturazione dell’edificio esistente.
de Eccher però si è lasciato sfuggire un commento che ormai è sulla bocca di tutti da molto tempo ovvero il fatto che il centro storico di Udine sia lasciato in stato di abbandono e sia ormai diventato una zona priva di stimoli.
Lo stato di abbandono del centro è qualcosa che noi di Udine Futuro e Presente denunciamo da molto tempo: il centro storico della città sembra sempre più svuotato e privo di vita. 
Le attività commerciali si contano sulla punta delle dita e pare che solo banche e gioiellerie riescano a sopravvivere.
Questo stato della città è qualcosa che viene subito notato tanto che il leader del M5S Beppe Grillo durante la sua ultima visita alla città chiese in maniera beffarda ai propri sostenitori se Udine sia una città di sole banche.
Lo stato di abbandono del centro è un male che avanza ormai da più di un decennio: il suo progressivo svuotamento è in atto da prima dell’inizio del secolo e negli ultimi tempi la situazione è drasticamente peggiorata. La città tende a svuotarsi sempre di più ed a offrire sempre di meno.
Tale situazione spesso si estende anche alla periferia: cresce sempre di più il numero di edifici in via di abbandono, le ristrutturazioni mancate ed il generale stato di incuria della città soprattutto in alcune zone critiche.
Fino ad ora le autorità competenti si sono sempre mascherate dietro la scusa del patto di stabilità. Secondo questa teoria non sarebbe possibile in alcun modo porre rimedio a questa situazione a causa delle ristrettezze economiche. Eppure i soldi per gradi opere quali il parcheggio di Piazza Primo Maggio sono stati messi a disposizione senza troppe difficoltà.
Quello che serve ad Udine è un cambio di mentalità: servirebbero infatti interventi magari anche piccoli ma mirati alla riqualificazione completa del territorio ed alla sua manutenzione nell’ottica di rimettere in piedi la città piuttosto che favorire la filosofia dispendiosa ed inutile delle grandi opere.
Nel frattempo il centro città continua ad essere in uno stato di sofferenza che lo sta portando verso il baratro di un declino molto veloce. 

D.Deotto

sabato 21 giugno 2014

LA LUNGA GUERRA CIVILE IN SIRIA




La guerra civile in Siria dura ormai da due anni e vede contrapposti du schieramenti: da una parte il presidente Assad dall’altra i ribelli, all’interno dei quali la matrice islamista è senz’altro la più forte.
La guerra civile in Siria è una conseguenza della primavera araba ma ciò che ancora oggi rimane poco chiara è la scelta dei paesi occidentali di appoggiare i ribelli strettamente legati all’integralismo islamico.
Che interesse hanno le nazioni occidentali a favorire l’ascesa di uno stato islamista nel cuore del medioriente?
Assad rappresenta un tipo di dittatore molto simile a Saddam Hussein. E’ giunto al potere in via di successione dopo la morte del padre Hafiz leader storico ed indiscusso del partito Baath siriano.
I partiti Baath sono retti da una ideologia chiamata “socialismo arabo” che è una sorta di via di mezzo tra il nazionalismo ed un tipo di socialismo non marxista.
Questo tipo di ideologia ha vissuto la sua epoca d’oro nel mondo arabo durante la guerra fredda. Esempio più famoso fu l’Egitto di Sadat. L’emergere di questi partiti non è stato un male per il mondo arabo perché essi hanno modernizzato la società ed hanno contribuito ad avviare sostanziali processi di secolarizzazione.
Il socialismo arabo ha tuttavia fallito nella sua missione di riuscire a portare i paesi del medioriente allo stesso rango delle potenze occidentali ed è per questo che è stato progressivamente abbandonato nel tempo. Con la fine del regime di Saddam e di Gheddafi, quello di Assad rimane l’ultimo esempio di socialismo arabo ancora esistente.
Quel che però dovrebbe interessare l’occidente è che il declino di questa ideologia non è coinciso con l’emergere di una coscienza liberale e democratica nei paesi islamici ma, al contrario, è coincisa con il dilagare dell’integralismo islamico.
C’e sempre stato infatti un rapporto di profondo disprezzo tra baathisti e integralisti islamici: i primi volevano modernizzare la società rendendo la religione meno vincolante nella vita dei cittadini. Volevano insomma avviare un processo di secolarizzazione. I secondi invece respingono la modernità oppure la utilizzano solo nella misura in cui è funzionale ad aumentare il controllo religioso sulla società.
I principali nemici degli integralisti islamici sono sempre stati i baathisti tant’è che si può affermare con certezza che proprio in paesi come Iraq, Siria e Libia era impossibile il proliferare di cellule islamiste proprio perché perseguitate dai rispettivi regimi.
La realtà è che l’occidente ha commesso un clamoroso errore di lettura nella primavera araba: esso ha visto questo fenomeno come l’0emergere di una coscienza democratica in medioriente invece non è stato così.
Le primavere arabe saranno anche partite dalle proteste di studenti sinceramente democratiche ma alla fine hanno avvantaggiato gli islamisti che pian piano sono arrivati a controllarle completamente.
La conseguenza bizzarra è stata che l’occidente, da sempre impiegato nella “war on terror” si è trovato a finanziare gli islamisti sunniti, la principale fucina del terrorismo islamico internazionale.
Non deve dunque stupire se Russia e Cina hanno deciso di foraggiare Assad. I ribelli siriani, che piaccia o meno, sono controllati dall’integralismo islamico e non stanno combattendo per la democrazia ma per l’instaurazione di uno stato integralista sunnita.
I paesi occidentali si sono comportati con molta superficialità: per quelli che sono i nostri interessi geopolitici è molto meglio avere a che fare con un regime tendenzialmente laico con cui si può dialogare piuttosto che con stati islamisti che vedono in noi soltanto un nemico da eliminare.
L’intervento russo e cinese ha impedito una rapida sconfitta di Assad ed è molto probabile che sarà proprio lui a vincere questa guerra civile. I paesi occidentali invece farebbero molto meglio a fare più attenzione a destabilizzare regimi che forse sono più utili che dannosi. 

D.Deotto