mercoledì 30 luglio 2014

IL GRANDE BUSINESS DELL'IMMIGRAZIONE


Su questo blog abbiamo spesso affrontato il tema dell'immigrazione spendendo parole critiche per il modo in cui questo fenomeno è stato affrontato in Italia negli ultimi anni.
Spesso capita che chi faccia questo tipo di critiche venga accusato di razzismo oppure scarsa sensibilità nei confronti delle difficoltà di altri esseri umani ma ne siamo sicuri?
Siamo veramente certi che chi approva lo status quo non sia a sua volta animato da interessi non molto nobili?
Questa domanda non ce la siamo posta solo noi ma pure il quotidiano Repubblica che ha voluto andare più a fondo sulla questione immigrazione.
La costosa operazione Mare Nostrum, su questo blog più volte criticata, a cosa serve?
Secondo il quotidiano favorisce un business da 2 milioni di euro al giorno sulla pelle dei migranti: più ne arrivano e più alti sono i guadagni!
Generalmente gli immigrate che sbarcano dalle nostre coste illegalmente hanno già accumulato debiti con scafisti senza scrupoli, viaggiano in condizioni disumane, e spesso ricattati al loro arrivo dagli scafisti stessi. A questa situazione si aggiunge una inaccettabile speculazione sulla loro pelle da parte di aziende che si arricchiscono a spese dello stato.
Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, denuncia la presenza di un inaccettabile businnes dell'accoglienza gestito dalla Legacoop, dalle imprese di CL e dalle multinazionali. Le gare bandite dal viminale vengono aggiudicate con un ribasso medio del 30% sulla base d'asta. In ogni centro si tengono stipati per mesi un numero doppio o triplo di rifugiati a danno delle condizioni di vivibilità ma a vantaggio delle tasche dei gestori. E' infatti vantaggio di queste persone osptiare quanti più profughi possibile e per il più lungo tempo possibile al fine di aumentare i profitti. Ogni immigrato che mette piede in un centro di accoglienza ci costa 45 euro al giorno e lo stato arriva a spendere fino a 70 euro al giorno per i bambini. 
Gli aspiranti allo status di rifugiato sono la preda più ambita perchè i profitti sono più alti: come scrive Alessandra Ziniti su Repubblica: 
"Gli aspiranti allo status di rifugiato costituiscono la fetta più ghiotta della torta. Ecco perché quella che è diventata una vera e propria città di richiedenti asilo, il Cara di Mineo, ospitato nel "Villaggio degli aranci" prima abitato dagli ufficiali americani di stanza a Sigonella, è diventato il motore dell'economia di questa parte della provincia di Catania. Quattromila persone di 50 etnie diverse, il doppio della capienza, fruttano al "Consorzio Calatino Terre di accoglienza" la cifra di 50 milioni di euro all'anno". 
Le condizioni di vita in questi luoghi sono pessime a causa del sovraffollamento e della permanenza troppo lunga favorita dai gestori stessi. Per fare un esempio un giovane siriano in attesa da mesi di un permesso di soggiorno si è suicidato poche settimane fa perchè non reggeva più le sue condizioni di vita. 
Da parecchi mesi sulle pagine di questo blog chiediamo una revisione completa delle regole nell'ambito della gestione dell'immigrazione sia a livello di entrate che di politiche di integrazione. 
Facciamo ciò perchè perfettamente consapevoli che l'attuale stato delle cose non è nell'interesse dei cittadini e ancor di meno dei immigranti. 
Una legge sul modello australiano permetterebbe un accesso contrallato e selezionato al paese nonchè la possibilità di dare una reale assistenza senza sprecare denaro pubblico e senza causare ulteriori disagi a cittadini e migranti. 
Un modello di integrazione che metta al centro il rispetto per le altre culture senza però dimenticare il fondamentale rispetto delle nostre leggi, delle nostre tradizioni e della nostra cultura è l'unica strada perseguibile per una convivenza pacifica tra autoctoni ed immigrati. 
L'attuale stato delle cose non è governato da nessuna logica di carità o di comprensioni ma da vergognose logiche di profitto che non sono tollerabili in ubn paese civile. 
Potete reperire maggiori informazioni in questo link:  http://www.repubblica.it/cronaca/2013/12/19/news/migranti_business_da_due_milioni_al_giorno-73991727/

D.Deotto. 

lunedì 28 luglio 2014

IMPRENDERO': PER LA CREAZIONE DI UNA CULTURA D'IMPRESA



 
E’ stato presentato ad Udine nel palazzo della regione il progetto imprenderò che ha come obiettivo promuovere la cultura imprenditoriale e facilitare la creazione di nuove imprese.
Il progetto, molto imponente, vuole diffondere la cultura imprenditoriale vista come precondizione necessaria per innescare progetti virtuosi di sviluppo economico.
L’obiettivo degli organizzatori è sostenere coloro che vogliono creare nuove imprese ed in generale facilitare il lavoro autonomo.
Nel concreto il progetto è composta da 75 seminari informativi, 48 corsi di formazione e 10.000 ore di consulenze individuali.
I corsi di formazione sono incentrati sul tema specifico di come creare una impresa partendo dallo sviluppo delle competenze tecnico-professionali per poi arrivare a spiegare l’organizzazione d’impresa e la creazione di un businnes plan. Il corso si conclude con un esame finale.
I luoghi in cui queste attività si terranno sono i principali centri di formazione regionale come lo IAL, l’ENAIP, l’IRES, il CFF e l’Area Park Science di Trieste.
La direzione ed il Coordinamento del progetto è affidata al Consorzio Friuli Formazione che si avvarrà della collaborazione di partner attuatori come i centri di formazione già citati, le università, le associazioni di categoria, la camera di commercio e gli enti istituzionali quali regione, province e comuni.
Il programma si focalizzerà su due principali punti: la trasmissione di impresa intesa come passaggio generazionale, che sarà sostenuta tramite l’organizzazione di appositi seminari e delle consulenze personalizzate nella fase di cessione dell’impresa.
La creazione d’impresa intesa come lo sviluppo dell’autoimpiego. In questo caso il programma è più articolato e prevede l’organizzazione di seminari promozionali a puro scopo informativo e di altri seminari tematici, che approfondiranno uno specifico tema ritenuto rivelante per lo sviluppo della cultura imprenditoriale. Infine troveremo i già citati corsi di formazioni e la possibilità di consulenze personalizzate per l’attuazione dei propri progetti.
I destinatari di questo progetto sono i giovani under 30 che non studiano e non lavorano, gli iscritti al programma garanzia giovani ed occupabilità e tutte le persone fino ai 65 anni che risultino disoccupati, inoccupati, cassaintegrati.
Questo grande progetto ora in partenza è senz’altro una iniziativa interessante che noi di Udine Futuro e Presente terremo d’occhio. Il programma è stato promosso nella evidente ottica di contrastare due fenomeni negativi molto diffusi ovvero la diminuzione del numero di imprese e la crescente disoccupazione. Da sempre crearsi da soli il lavoro è considerata una delle strade per uscire dalla disoccupazione. Ma il programma va ben oltre: si intende diffondere una cultura d’impresa al fine di innescare un processo virtuoso che porterà alla nascita di nuove imprese e sul lungo periodo alla creazione di nuovi posti di lavoro.
Il progetto vuole coinvolgere anche i giovani sempre più esclusi dal mondo del lavoro e per niente aiutati dalla scuola nel passaggio tra la fine degli studi e l’inizio dell’attività lavorativa.
Le risorse e l’organizzazione messa in campo è stata imponente ma per vedere i risultati di questa iniziativa occorrerà sicuramente attendere molti anni. 
Maggiori informazioni sono reperibili presso questo sito. 
http://www.imprendero.eu/

D.Deotto

giovedì 24 luglio 2014

UNA NUOVA EPOCA MEIJI?

Il Giappone alla ricerca di una propria autonomia. Addio al pacifismo istituzionale e aumento della cifra destinata agli aiuti esteri (ma non a vantaggio dei più bisognosi).


Secondo alcuni advisors del Ministero degli Affari Esteri, il governo giapponese dovrebbe prendere in considerazione l’idea di incrementare la cifra destinata agli aiuti diretti ai paesi esteri. Il Giappone attualmente si trova al quarto posto tra i donatori dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), importantissima organizzazione internazionale che racchiude i paesi più sviluppati economicamente al mondo e dentro la quale il Giappone festeggia proprio quest’anno il cinquantesimo anno di adesione.
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L’OCSE, attraverso un suo forum dedicato, si occupa infatti di definire la natura degli aiuti internazionali, perlopiù racchiusi sotto la sigla di ODA (Assistenza Ufficiale allo Sviluppo), indicando quali stati possono essere beneficiari di questi aiuti, le modalità di elargizione e di intervento e le condizioni da porre per poterli elargire.
Fumio Kishida, Ministro degli Affari Esteri, ha dichiarato che questo genere di aiuti costituiscono il “più grande strumento diplomatico” a disposizione del paese. Per quanto la cifra spesa da parte giapponese sia tra le più grandi in termini assoluti, il Giappone ha storicamente speso assai poco in rapporto al suo PIL.
I nuovi aiuti giapponesi. Addio al terzo Mondo?
Tuttavia, nel report stilato dal Ministero, viene specificato che la cifra addizionale destinata agli aiuti internazionali dovrebbe essere investita a beneficio di paesi che si trovano al di fuori dalla lista dei paesi “bisognosi”, lista redatta dall’OCSE stessa.
Il report suggerisce al governo di concentrarsi soprattutto tra i paesi più floridi dell’area caraibica e del golfo persico. L’idea di poter usare lo strumento degli aiuti internazionali per supportare paesi floridi o comunque in buoni condizioni economiche potrebbe sicuramente far storcere a coloro che valutano questi strumenti da un punto di vista etico, e umanitario. Gli advisors del Ministero, tuttavia, sembrano non farsi scrupolo nel mostrare il notevole giro d’affari scaturito dalla sinergia tra gli aiuti internazionali del governo e gli investimenti privati ad opera delle compagnie giapponesi nei paesi beneficiari .
 Abbandonare lo schema di classificazione dei paesi bisognosi dell’OCSE e la sua visione di un mondo spaccato a metà tra ricchi e poveri sarebbe, per il Giappone, rendere cristallino il suo machiavellico modo di usare gli aiuti, una vera e propria strategia di rafforzamento economico in atto da decenni, complice proprio alla rigidità dell’OCSE nel definire i criteri per i paesi beneficiari degli ODA, mantenendo tutt’ora nella lista dei paesi bisognosi potenze consolidate quali India e Cina.
Proprio il paese di Centro è stato per decenni il principale beneficiario dell’aiuto internazionale giapponese, e non certo per ragioni umanitarie. Aldilà del ricchissimo business nel finanziare l’ascesa economica cinese, è sempre stato interesse da parte giapponese quello di legare a doppio filo le rispettive economie, normalizzando i rapporti diplomatici tra due nazioni che si combatterono ferocemente durante la seconda guerra mondiale e, in ultima istanza, monitorare l’espansione di una futura rivale intenzionata a diventare egemone nella regione.
Sotto quest’ottica le parole del ministro Kishida sull’importanza degli aiuti internazionali quali strumento diplomatico assumono un significato del tutto diverso della semplice dichiarazione di buona volontà da parte di un paese ricco a sostegno delle nazioni meno fortunate. Esportare il modello di aiuti “cinese” ad altri paesi strategicamente importanti per il Giappone, non è solo una questione di ritorno economico, che il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha stimato in 88 miliardi di dollari di profitti per le aziende giapponesi per investimenti economici legati agli aiuti internazionali.
È interesse del Giappone riprendere anche l’uso di questi aiuti quale strumento di azione politica. In particolar modo il report indica che il Giappone potrebbe considerare l’uso delle forze armate a scopi umanitari, soprattutto in caso di disastri naturali.
Per la maggior parte delle nazioni l’eventualità di usare l’esercito come forza d’aiuto in caso di terremoti o inondazioni sarebbe un fattore scontato, ma per il Giappone, vincolato da una costituzione molto rigida che prevede esclusivamente l’uso di forze di autodifesa da dispiegare soltanto in patria, rappresenta un piccolo, grande passo, verso la grande rivoluzione annunciata da Abe, riguardante proprio il ruolo delle forze armate giapponesi secondo la nuova politica strategica giapponese.
Un nuovo esercito per una nuova politica militare: “l’autodifesa collettiva”.
La parola d’ordine per il nuovo Giappone, secondo il governo Abe, sembra essere “autonomia”, da non limitare ai soli aiuti internazionali. Per poter fare ciò, il governo è intenzionato a rimuovere l’ultima componente del proprio paese la cui sovranità non piena e indiscutibile: la politica di difesa. L’obiettivo principale del governo è quello di mutare l’articolo nove della costituzione, risalente all’immediato dopoguerra, dove il Giappone rinuncia ad ogni forma di conflitto armato salvo se direttamente attaccato da un’altra nazione. In tal caso, l’articolo prevede l’uso di forze d’autodifesa, in collaborazione con l’esercito americano, vero custode della sicurezza giapponese.
soldati giapponesi 
Se tale riforma venisse approvata, il Giappone baserebbe la propria politica di difesa su di un nuovo concetto, “l’autodifesa collettiva”, secondo la quale il Giappone avrebbe la possibilità di prestare soccorso armato ad una nazione alleata attaccata. Verrebbe poi del tutto abbandonata l’idea di ricorrere a forze di autodifesa, le quali verrebbero riformate nel creare un esercito vero e proprio. Infine, si avrebbero criteri meno restrittivi per consentire al Giappone di partecipare a missioni di pace internazionali.
Con questo profondo mutamento della propria costituzione, il Giappone non soffierebbe più il contrasto di essere un gigante economico e un nano politico in ambito internazionale La consapevolezza di potersi di nuovo muovere nello scacchiere internazionale, senza dover più contare sull’ombrello protettivo statunitense e allo status di potenza sconfitta e tenuta sotto controllo dai propri vincitori, fa sì che Abe abbia paragonato questo cambio di rotta come uno sconvolgimento del paese pari a quello innescato dalle riforme Meiji, che hanno condotto il Giappone dall’epoca feudale e autarchica a quella moderna e industriale.
Le resistenze pacifiste dell’Opinione Pubblica.
Il governo giapponese sta cercando, mutando il dettame costituzionale sul pacifismo della nazione, di esplicitare qualcosa che è già in atto da diverso tempo. Per quanto le sue forze armate, secondo la visione americana dal tempo alla fine della guerra col Giappone, sarebbero dovute essere poco più che una milizia di supporto all’esercito americano in caso di invasione sovietica, il Giappone ha sviluppato una forza militare notevole, che ha già impiegato questa sua forza in contesti fuori da quelli dei confini nazionali.
Japanese Constitution 
L’intenzione del Primo Ministro Abe è adeguare la Costituzione giapponese a questo nuovo scenario, consentendo alla nazione di potersi muovere non solo secondo le necessità della comunità internazionale ma anche a difesa d’interessi esclusivamente giapponesi.
I giapponesi però, e in questo punto sì che le riforme di Abe si pongono in continuità con quelle Meiji sembrano restii ad abbandonare un istituzione, il pacifismo costituzionale, con la difesa della nazione affidata in parte agli Stati Uniti, che per sessant’anni ha contribuito alla ricchezza e alla prosperità del paese, grazie alle ingenti somme risparmiate dalla difesa a vantaggio di altri investimenti (tema attualmente molto caro a diverse nazioni dell’Europa Occidentale, tra cui l’Italia). I sondaggi tenuti sull’argomenti danno tutti una percentuale di cittadini contraria alla modifica dell’articolo nove della costituzione superiore al cinquanta per cento.. Il 29 Giugno, un uomo, nella centrale zona di Tokyo di Shinjuku, ha tentato il suicidio dandosi fuoco, subito dopo aver proferito un discorso contro l’intenzione del governo di abbandonare il pacifismo costituzionale.
Nuove speranze e vecchi rancori: le reazioni dei paesi vicini.
Le intenzioni giapponesi di abbandonare i rigidi parametri dell’autodifesa, hanno riacceso vecchie questioni solo in apparenza scomparse in questi decenni di pace e proficui scambi economici.
La Cina, in particolare, sembra non voler accettare un ritorno del Giappone come attore autonomo nello scacchiere internazionale. I media cinesi hanno già cominciato una forte campagna di condanna e biasimo delle intenzioni giapponesi, rievocando un passato in cui il Giappone è accusato di aver sempre condotto attacchi subdoli e a sorpresa, alludendo, perciò, all’eventualità che il Giappone possa ripetersi.
Japan vs China 
Quanto può essere vera o meno la paranoia dell’opinione pubblica cinese, racchiusa nella posizione dell’agenzia di stampa ufficiale del governo Xixhua che si chiede, rivolgendosi al governo giapponese stesso “c’è la Cina nella vostra agenda?”, è difficile dirlo. Di certo è ferma intenzione cinese che la situazione resti il più possibile cristallizzata agli equilibri del dopoguerra, come d’altra parte esplicitamente scritto nelle colonne del People’s Daily, giornale ufficiale del Partito Comunista Cinese.
Se l’opposizione cinese può apparire logica, sono decisamente più inaspettate le remore della Corea del Sud, alleato ormai storico del Giappone negli ultimi decenni. Seoul si è infatti affrettata a precisare che qualsiasi azione diretta del Giappone nel teatro coreano contro la Corea del Nord deve per forza passare dall’approvazione e dal consenso della Corea del Sud stessa. A soli due giorni dalla dichiarazione coreana, datata 2 Luglio, Corea del Sud e Giappone hanno già avuto modo di scontrarsi in merito alla decisione unilaterale giapponese di limitare l’importo delle sanzioni economiche inflitte alla Corea del Nord per ragioni “umanitarie”.
La repentina mossa giapponese, che sembra voler tastare il terreno mentre ci si prepara alla riforma costituzionale, sembra aver trovato il tacito accordo del governo americano. Washington, con l’insediamento di Obama e della sua strategia di politica estera volta a condividere gli oneri della sicurezza globale con alleati locali nelle varie regioni, da anni ha spinto il Giappone ad un impegno maggiore in ambito della sicurezza internazionale. La riforma dell’articolo nove e l’abbandono del pacifismo sarebbe una ghiotta occasione per gli Stati Uniti di poter risparmiare parte delle proprie risorse in uno scenario tanto importante quale quello dell’Asia Orientale, al punto da essere disposti ad accettare la nuova politica estere autonoma giapponese, persino se rivolta verso l’odiata Corea del Nord.
COMIC 
Certamente è ancora prematuro stabilire se la riforma dell’articolo nove e l’adozione del principio dell’autodifesa collettiva sia davvero un mutamento paragonabile, per il Giappone, alle riforme Meiji. La sola sicurezza che si ha al momento è di come, in entrambi i casi, alla radice di decisioni tanto drastiche in un paese visceralmente votato alla stabilità e alla continuità, ci sia la consapevolezza che il Mondo in cui viveva il vecchio ordinamento ormai non esisteva più. Così come le “navi nere” del Commodoro Perry indicavano come l’epoca di armonia feudale retta dai samurai al riparo dal resto del Mondo fosse ormai storia passata, oggi Tokyo ha maturato la consapevolezza che il mondo del dopoguerra, del miracolo economico giapponese, in cui vigeva una netta spaccatura tra mondo ricco e mondo povero nel quale il Giappone, al di fuori dei propri confini, aveva solo di che seguire il proprio protettore americano, ormai non esiste più.

M. Annunziata
tratto da: http://www.obiettivomondo.it/una-nuova-epoca-meiji/

domenica 20 luglio 2014

LA GENIALE INVENZIONE DELLA ADRON TECHNOLOGY


L'Aereomobile a Pilotaggio Remoto, comunemente conosciuto con il nome di drone, è un velivolo caratterizzato dalla dall'assenza di un pilota umano a bordo. Esso viene telecomandato da terra attraverso un computer o un navigatore.
L'uso dei droni è già noto in campo militare tanto che essi sono stati e sono utilizzati attualmente in Iraq e Arghanistan nella lotta contro il terrorismo. Il loro utilizzo è stato spesso criticato a causa dell'alto numero di vittime civili che tendono a procurare.
Esiste tuttavia un modo pacifico di utilizzo di questa sofisticata tecnologia che non arreca danno agli altri esseri umani ma che al contrario favorisce lo sviluppo economico.
Il merito della conversione di questa tecnologia militare in ambito civile è della ADRON TECHNOLOGY, una start up di giovani friulani che, quasi per gioco, hanno provato a mettere i droni al servizio dell'agricoltura.
La piralide del mais è un parassita che infesta i campi friulani durante la stagione estiva riducendone la produttività. Al fine di non veder danneggiata la propria attività gli agricoltori sono costretti alla disinfestazione: essa però porta via un sacco di tempo (più di un giorno per campo) e non sempre i prodotti utilizzati sono i più adatti.
L'idea della start up friulana è stata di far volare i droni nei cieli delle campagne friulane per constrastare la diffusione di questo pericoloso parassita.
I vantaggi dell'utilizzo dei drono sono due: l'utilizzo di prodotti biologici per contrastare la piralide e la straordinaria rapidità nel contrastarla.
I droni infatti bombardano i campi con sfere di cellulosa biodegradabili contenenti le uova di un insetto che è in grado di neutralizzare il parassita.
I droni sono molto rapidi nel svolgere una mansione: se un essere umano ci mette una intera giornata per la disinfestazione, gli APR ci mettono appena un'ora.
L'idea è stata portata avanti da un team di giovani tecnici friulani il più giovane dei quali ha 17 anni.
Si tratta del primo caso in europa di utilizzo di questa tecnologia, tradizionalmente usata dai militari, nel campo dell'agricoltura.
La start up è nata quasi per gioco per poi diventare una cosa seria tanto da investirci sopra 40.000 euro nella costruzione dei droni. Importante la collaborazione di alcuni agricoltori del mantovano che hanno fortemente creduto nel progetto. Altrettanto importante è stata la collaborazione dell'azienda creatrice del prodotto biologico di cui i droni sono dotati: essi infatti cercavano da molti anni un metodo efficace di distribuzione del loro prodotto nei campi.
A seguito dei primi successi, è iniziata la sperimentazione in alcuni campi del mantovano che servirà a testare questa nuova e promettente tecnologia.
Gli esiti sono finora stati così buoni che la start up ha ricevuto una pioggia di richiesta dall'Italia e da tutta Europa.
La fantasia di questi giovani dimostra che, nonostante tutte le difficoltà imposte dal momento storico, è ancora possibile fare impresa e che in questo periodo difficile risorse come la creatività sono fondamentali per riuscire a sopravvivere ed a creare qualcosa di successo.

D.Deotto


venerdì 18 luglio 2014

IL LENTO DECLINO DELLA FRANCIA





Se Madrid, Lisbona, Roma ed Atene piangono, Parigi non ride. La Francia da sempre considerata il principale partner tedesco nella zona euro mostra tutti i segni di un declino sempre più vicino.
Le statistiche confermano questa realtà: la crescita è quasi nulla (0,2%), il debito pubblico è pari al 93% ed in costante aumento, la disoccupazione è quasi al 11%. Secondo le stime, in caso di deflazione, la disoccupazione potrebbe raggiungere il 12% e la crescita del pil contrarsi ulteriormente.
Le misure fiscali adottate dal governo Hollande non sono servite a nulla: la pesante patrimoniale imposta (fino al 75% per i redditi più elevati) ha finito per pesare soprattutto sul ceto medio che ha drasticamente diminuito i consumi. Un ruolo altrettanto importante stanno giocando le aspettative negative: i francesi vedono con preoccupazione il futuro e tendono a ridurre i consumi aumentando così i risparmi.
La Francia se la passava abbastanza bene negli anni ’90 ma ora sono almeno 10 anni che il paese arranca: il costo del lavoro è molto elevato, il commercio verso l’estero si è ridotto sensibilmente, la pressione fiscale è aumentata. Persino il settore turistico, molto fiorente nel sud del paese, arranca a causa dei costi elevati.
La Francia potrebbe cercare di risolvere i suoi problemi tramite una svalutazione, maggiori investimenti in economia e riforme strutturali ma ciò non solo non avviene ma non viene neppure preso in considerazione.
Questo scenario però non è possibile perché la Francia aderisce alla zona euro e deve rispettare il vincolo del 3%. Il governo inoltre non ha annunciato alcuna riforma strutturale.
La Francia non è colpita solo da problemi economici ma anche sociali e politici: le ultime elezioni europee hanno decretato l’avanzata del Front National di Marine Le Pen, la quale adotta un programma fortemente antieuropeista, anti moneta unica ed anti-tedesco. Il successo dell’estrema destra è stato determinato dalla difficile situazione che il paese sta vivendo sul fronte della disoccupazione e dell’0integrazione degli stranieri.
In Francia diventa sempre più difficile inserirsi nel mondo del lavoro e l’integrazione delle popolazioni nord africane è diventate sempre più difficile.
Numerosi quartieri francesi sono ormai lasciati allo sbando in preda alla criminalità ed all’integralismo religioso. Il problema sicurezza si fa drammaticamente sentire in tutte le principali città francesi ed è favorito dai pensanti vincoli di bilancio imposti dalla UE.
Politiche sull’immigrazione poco lungimirante hanno inoltre riempito il paese di immigrati poco qualificati, poco integrati che vivono in un drammatico stato di povertà.
La situazione francese risulta difficile anche sul fronte della politica estera: la Francia infatti è l’unico paese europeo ad avere una politica estera molto articolata, con interessi in tutti i continenti e con una forza militare, anche nucleare, di tutto rispetto. La recente avanzata dell’integralismo islamico in Africa ha costretto i francesi ad intervenire militarmente in Mali e nella Repubblica Centroafricana.
Tutto ciò ha generato un aumento delle spese militari e la necessità di arruolare più uomini in evidente contrasto con le esigenze di bilancio.
I francesi non accettano di perdere il proprio impero in nome dell’austerity e questo leitmotiv è stato ampiamente utilizzato in campagna elettorale dall’estrema destra.
La situazione sul fronte politico è quindi difficile: i consensi del FN sono al 25%, quelli della UMP (centrodestra) al 20%, quelli del PS (centrosinistra) al 13%. L’unica alternativa per arginare l’avanzata della Le Pen sembra essere quello della grande coalizione ma si tratta di una possibilità non percorribile perché il doppio turno francese ideato da De Gaulle è nato proprio per scongiurare questa possibilità.
La Francia di oggi è un paese molto incerto: fino ad un decennio fa essa sembrava essere il partner fedele della Germania in Europa. La stessa moneta è unica è nata come idea di Mitterrand per contenere la Germania in vista della sua sicura riunificazione. Ora però la moneta unica e l’intero edificio europeo si sta rivolgendo contro gli stessi francesi che l’hanno ideato.
I paesi del mediterraneo, fiaccati da anni di austerity, fanno fatica persino a tutelare i propri interessi e, almeno nel caso dell’Italia, sono colpiti da un evidente senso di inferiorità che impedisce loro di abbozzare una qualsiasi reazione. Sarà invece interessante vedere come reagiranno i ben più orgogliosi francesi quando verranno gettati nel calderone dei PIIGS e quando non verranno più considerati “partner alla pari” ma soltanto un paese satellite.
Le premesse non sono molto incoraggianti: in tempi nemmeno troppo lunghi la Francia rischia di entrare in recessione e le sciagurate politiche deflazionistiche della BCE stanno accelereranno questo processo.

D.Deotto