giovedì 29 gennaio 2015

LA PARABOLA FALLIMENTARE DELLO STATALISMO GRECO





Il 2015 viene inaugurato all’insegna di una novità politica: nella Grecia prostrata dalla crisi economica ha vinto le elezioni il partito Syriza capitanato dal giovane leader Tzipras. E’ la prima volta dai tempi della rivoluzione dei garofani che un partito di sinistra radicale riesce ad andare al governo nel vecchio continente. Tzipras governerà a capo di una strana coalizione rosso-nera. L’alleato di governo sarà infatti un partito nazionalista che si è staccato dai conservatori non troppo tempo fa.
A prescindere dalle ideologie politiche, la Grecia ora si trova di fronte ad un momento drammatico così come tutti i paesi del mediterraneo ovvero il fallimento delle loro politiche economiche tradizionalmente stataliste.
Ma cosa si intende per statalismo?
Chiariamo subito che la parola è stata diverse volte utilizzata nella cultura politica italiana da personaggi di grande spessore come Salvemini e Croce e sta ad indicare una fortissima tendenza dello stato a invadere la sfera sociale ed economica in maniera soffocante se non addirittura totalizzante.
Il semplice intervento dello stato in economia non è quindi automaticamente indice di statalismo anzi è normale che nelle economie moderne e sviluppate lo stato ricopra un ruolo importante in economia. Lo statalismo quindi non si riferisce all’intervento dello stato in economia ma solo ad un intervento di tipo soffocante. Lo statalismo è sempre presente nei regimi totalitari di qualsiasi colore mentre nei regimi democratico può essere più o meno presente a seconda dei casi. Quasi mai però si presenta con le stesse caratteristiche presenti nei regimi totalitari.
Il confine tra un normale intervento dello stato e lo statalismo è molto sfumato e spesso dipende dalla circostanze e dal momento storico. Gli unici paesi a non essere mai stati statalisti nella loro storia sono i paesi anglosassoni mentre Russia e Cina lo sono sempre stati.
Nel contesto europeo tutti gli stati hanno sempre previsto un intervento sostanzioso dello stato nella sfera economica in particolare nell’ambito del welfare. Per quanto riguarda l’industria la situazione è diversa da stato a stato: se realtà come la Francia e la Germania hanno sempre avuto un interventismo moderato, diverso è per i paesi del mediterraneo che invece hanno sempre riconosciuto allo stato un ruolo importante spesso degenerato in statalismo.
Il caso della Grecia è piuttosto emblematico: nazione che da sempre ha faticato ad emergere in età industriale, ha sempre sofferto il problema di un debole secondario e di un primario potenzialmente buono ma limitato dai pochi spazi territoriali. La Grecia inoltre non è mai stato un paese ricco e la scarsità di capitali ha impedito uno sviluppo industriale di larga scala.
La mancanza di capitali ha costretto più volte lo stato ad intervenire per fornirli con risultati il più delle volte negativi. Per esempio già nel 1893 la Grecia si è trovata in una situazione molto simile a quella odierna: la corruzione ed il fortissimo aumento della spesa pubblica voluti dal premier Trikoupis per la costruzione delle grandi opere infrastrutturali portarono all’insolvenza la debole economia greca. Il risultato fu l’instaurazione di una autorità finanziaria internazionale che aveva come scopo ripagare i debiti contratti dal paese. La Grecia non è mai più uscita da questa spirale: nel 1912-1913 la Grecia rimase coinvolta nelle guerre balcaniche ed in questo caso la forte spesa pubblica fu causata dalla necessità di armarsi. Tale necessità rimase tale per un lungo periodo a causa della Grande Guerra e successivamente della guerra greco-turca che impegnò il paese fino al 1923. La fine dei conflitti non bastò per far mutare le politiche economiche greche: le continue crisi di governo e l’instaurazione di un regime fascista accentò le tendenze stataliste greche.
Dopo la seconda guerra mondiale, in corrispondenza con gli aiuti erogati dal piano Marschall sembrava che la Grecia potesse cambiare strada ma ciò non accadde se non per pochi anni: il deteriorarsi dei rapporti con la Turchia a causa di Cipro e la dittatura dei colonnelli con le sue dissennate politiche economiche trascinarono nuovamente la Grecia nella spirale dello statalismo e del rischio di bancarotta.
Non vi fu sostanziale miglioramento finchè la Grecia non entro a far parte della UE nel 1981 ma purtroppo la buona strada fu di nuovo abbandonata agli inizi del nuovo millennio a causa della realizzazione della grandi opere e della diffusa corruzione.
Da un lato è vero che la scarsità di capitali è purtroppo una caratteristica comune nei paesi del mediterraneo ma a differenza di Spagna ed Italia la Grecia non ha mai saputo gestire la propria spesa pubblica sfociando sempre nello statalismo e nelle spese pazze.
Sarà interessante vedere come il nuovo premier greco gestirà la faccenda della spesa pubblica in un paese in cui la virtuosità degli amministratori di stato non è mai stata alta. 
A prescindere dalle preferenze politiche la Grecia ha un oggettivo problema di gestione della spesa pubblica. Come affronterò questo problema il nuovo premier? 

D.Deotto

lunedì 26 gennaio 2015

LA SOVRANITA' TRA MITO E REALTA'




La crisi economica ed il proliferare dei partiti populisti ha portato alla ribalta un termine che fino a pochi anni fa veniva ignorato: la sovranità.
Si tratta di un concetto molto antico che nasce nel 1400 dal giurista francese Jean Bodin e si concretizza pienamente nei trattati internazionali con la Pace di Westfalia secondo il famoso motto “cuius regio eius religio”. L’espressione latina stava a significare che i sudditi dovevano seguire la religione del proprio sovrano. In senso stretto l’espressione era stata coniata per porre fine alle guerre di religioni in Europa. In senso più ampio tale articolo diede potere completo ai sovrani di esercitare un potere completo sul proprio regno senza poter essere esautorati da nessun’altra autorità, cosa che invece succedeva nel medioevo.
La pace di Westfalia è quindi storicamente considerata il momento fondativo della sovranità nel diritto internazionale e diede vita a quella che è stata chiamata “repubblica diplomatica europea” ovvero un incrocio di accordi ed alleanza che garantivano l’equilibrio di potenza tra le nazioni europee. La sovranità ebbe il suo massimo splendore dalla fine del 1600 fino alla rivoluzione francese. Già in questo periodo però sembrava chiara una cosa: i paesi che potevano realmente esercitare la propria sovranità in ogni ambito erano solo le grandi potenze. I piccoli paesi, non in grado di schierare eserciti numerosi, finivano sovente per doversi adattare.
Una prima incrinatura del concetto di sovranità si ha durante le guerre napoleoniche quando Napoleone fece prevalere il principio ideologico della rivoluzione con conseguente conquista e instaurazione di governi fantoccio negli stati conquistati. La violazione di questo ordine da parte della Francia portò l’Austria e la Russia ad instituire la Santa Alleanza, la quale aveva come obiettivo la violazione della sovranità interna in caso fossero saliti al potere governi contrari ai principi della Restaurazione.
Da quel momento in poi non solo la sovranità continuerà ad essere un principio valido quasi solo per le grandi potenze ma inizierà a disgregarsi anche per queste ultime: la Grande Guerra ha infatti dimostrato che l’Europa era una specie di polveriera in cui nessuna nazione poteva prevalere sulle altre. Non solo, l’obiettivo della Grande Guerra non era più quello di equilibrare la potenza ma di eliminare completamente l’avversario. La fine definitiva dell’ordine sancito da Wesfalia si ha con la Seconda Guerra Mondiale, che dopo il 1941 diventò un conflitto ideologico, il cui fine ultimo era la prevalenza di un determinato modello di società.
Con il trattato di San Francisco il principio di sovranità viene de facto meno per gran parte delle nazioni europee. Da quel momento in poi le uniche due nazioni sovrane saranno solamente l’Urss e gli Usa.
I paesi dell’Europa occidentale vivranno infatti per almeno sessant’anni in un regime di sovranità limitata dal punto di vista economico, militare e politico. Essi sono stati vincolati ad adottare un determinato sistema economico, un tasso di cambio fisso, un’alleanza militare sovranazionale ed il sistema politico democratico. Stessa identica cosa è successa in Europa orientale.
Dal 1945 in poi il mondo è diventato bipolare ed il concetto di sovranità meno importante perché l’unica cosa che contava era l’appartenenza ad uno dei due blocchi all’interno dei quali c’era un leader egemone che era l’unico a godere della piena sovranità.
Il modo stesso di concepire la politica internazionale cambio: dal bilanciamento della potenza si è passati ad un sistema basato sull’esistenza di organizzazioni internazionali che, sotto l’egida delle potenze vincitrici, avevano il compito di limitare gli attriti e favorire la cooperazione. Nacquero in questo periodo istituzioni quali la Banca Mondiale, l’ex GATT oggi WTO, FMI, ONU, CECA, CEE.
L’idea che sta alla base di queste organizzazioni internazionali è che l’esercizio sregolato ed egoistico della sovranità ha come conseguenza il crearsi di conflitti, che possono avere conseguenze molto pesanti. Le tensioni vanno quindi risolte in maniera difesa dall’utilizzo della forza bruta. Il principio base della politica internazionale è diventato che maggiore integrazione produce minore conflittualità e quindi maggior benessere e stabilità per tutti.
La fine della Guerra Fredda ed il procedere della Globalizzazione hanno ulteriormente indebolito il concetto di sovranità. Essendo aumentata l’integrazione tra paesi e la competitività, un evento negativo in un paese si ripercuote automaticamente su tutti.
Ma quindi la sovranità è scomparsa? Non proprio. Essa è in qualche modo sopravvissuta anche se molto ridimensionata rispetto al passato. All’aumentare delle interazioni tra paesi, è aumentata la necessità di regole internazionali a cui tutti si devono attenere e di conseguenza la sovranità si è ridotta.
Ma la sovranità è caduta vittima di un suo stesso difetto: come prima ricordato sin dalla sua nascita essa tendeva ad avvantaggiare le nazioni più grandi a scapito di quelle più piccole. Tale principio si è talmente dilatato nel tempo che persino le più grandi nazioni europee sono cadute vittima di questa logica non potendo più competere con nazioni grandi quanto continenti.
Oggi possiamo dare praticamente per scontato che le potenze future saranno tutte nazioni molto popolose e grandi almeno quanto un continente.
Per quanto riguarda il discorso europeo odierno si può dire che la sovranità è stata eccessivamente idealizzata: essa non ha mai rappresentato uno strumento a tutela dei più deboli e sin dal suo inizio ha sempre dato un considerevole vantaggio alle nazioni più grandi.
Intendiamoci bene, il discorso della mancanza di sovranità è serio e affonda le sue radici in mancanze che realmente ci sono nelle società europee ma credere nel ripristino delle sovranità nazionali non è solo utopico ma pure fuorviante. La sovranità perduta non potrà mai essere recuperata effettivamente dagli stati europei perché essi l’hanno già progressivamente persa a partire dal primo dopoguerra in favore degli stati continentali. E’ chiaro quindi che per questo problema europeo vanno trovate soluzioni differenti. 

D.Deotto. 

sabato 24 gennaio 2015

L'EVENTUALE VITTORIA DI TZIPRAS E' UN FALSO PROBLEMA





Le imminenti lezioni greche del 25 gennaio sono state accolte con timore in tutta Europa. Preoccupazione dei maggiori paesi soprattutto nel nord Europa è la vittoria di Tzipras, leader di un partito di sinistra alternativo alla linea del partito Socialista Europeo. Nella sua vittoria molti vedono una minaccia per la UE, per la moneta unica ed addirittura per il continente. Già qualcuno immagina scenari catastrofici di uscita dall’Euro e di crisi dell’Eurozona.
In realtà Tzipras rappresenta una falsa minaccia perché la sua vittoria può rappresentare una minaccia per l’unione nella misura in cui saranno considerate fondamentali le fallimentari politiche di austerity.
Tzipras infatti non è un antieuropeista a priori: intenzione del leader politico greco non è di uscire dall’euro ne tantomeno di porre fine alla UE. Egli chiede solo una revisione delle politiche economiche in direzione di una maggiore flessibilità ed un maggiore attenzione per il sociale.
Sebbene le responsabilità greche riguardo la situazione del paese siano innegabili, la situazione sociale ad Atene sta diventando sempre più insostenibile. Il paese è prostrato, ha un tasso di disoccupazione altissimo ed un livello di povertà tra i più alti in occidente. La situazione sociale è esplosiva e l’arena politica è in balia dei movimenti più estremi. Alba Dorata, partito di ispirazione neonazista, è già entrato in parlamento ed i suoi attivisti si sono già macchiati di azioni di violenza e razzismo nei confronti di stranieri e oppositori politici. Tzipras proviene dall’estrema sinistra greca e per arrivare al successo attuale ha dovuto riorientare molto le sue posizioni al fine di una maggiore inclusività.
Le previsioni negative che in questi giorni abbondano sono in realtà del tutto ingiustificate: l’obiettivo di Tzipras è ottenere la cancellazione di parte del debito greco al fine di poter riattivare quel minimo di spesa pubblica indispensabile per riformare il paese in senso di una maggiore giustizia sociale.
Tzipras non ha idee antieuropeiste: al contrario si era presentato alle elezioni europee con un movimento politico avente come obiettivo l’integrazione politica dell’Europa e delle diverse politiche economiche più favorevoli ai paesi periferici.
Le posizioni di Tzipras, a prescindere dal colore politico, suscitano un certo consenso proprio nei paesi periferici maggiormente colpiti dalla crisi.
Se le autorità di Bruxelles ritengono importante salvare l’Euro e la UE in misura superiore all’Austerity, dovranno per forza scendere a patti con la Grecia e Tzipras è per loro un male minore rispetto ad un movimento antieuropista che invece non sarebbe disposto a trattare.
Se la UE sarà capace di fare un offerta accettabile a Tzipras, egli smetterà di essere una minaccia per la moneta unica. Tutto dipende dalle reazioni di Bruxelles, che dovrebbe iniziare a pensare a come gestire il crescente scontento per le politiche di austerity.
Esistono quindi almeno tre motivi per cui la vittoria di Tzipras non sarebbe un problema:
1      Tzipras non mette in discussione il progetto politico europeo ma solo le sue politiche economiche. Questo è dimostrato dal fatto che si presentò alle elezioni europee in uno schieramento che criticò fortemente l’austerity senza però poter essere considerato euroscettico.
2      In questo preciso istante, dal punto di vista di Bruxelles, la sinistra radicale è meno pericolosa della destra radicale perché, a differenza di quest’ultima, essa si mantiene fedele alla linea europeista.
Si tratta quindi del male minore perché ci sono maggiori margini di trattativa ed almeno un punto in comune rispetto alla destra radicale dove invece mancano i punti di accordo.
3     La Grecia rimane un paese periferico, piccolo e poco condizionante dal punto di vista economico. Un eventuale default parziale greco non sarebbe una tragedia e potrebbe essere perfettamente assorbito all’economia europea.
Dunque qualsiasi sia il risultato delle elezioni greche, un eventuale vittoria di Tzipras non rappresenterebbe poi chissà quale grande minaccia. Sarebbe molto peggio se al suo posto vi fosse Alba Dorata. 

D.Deotto.