Uno dei cavalli di battaglia durante la campagna elettorale
della presidente Serracchiani fu la specialità del Friuli Venezia Giulia.
Secondo la presidente le passate giunte non sono state in grado di sfruttare a
pieno lo statuto speciale di cui la nostra regione gode da sempre.
Effettivamente tra le regioni a statuto speciale, il Friuli
Venezia Giulia è la regione che gode di meno vantaggi e purtroppo anche quella
che ha fatto di meno per avere maggiore autonomia.
Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Sicilia e Sardegna hanno
saputo sfruttare meglio di noi la loro specialità arrivando a livelli di
autonomia molto elevati.
In particolare il Trentino Alto Adige è diviso in due
province autonome, le quali trattengono il 90% delle tasse sul proprio
territorio. Non è un caso che questa specialità, unita alla bassa corruzione e
ad una buona amministrazione del denaro pubblico, abbia fatto raggiungere al
Trentino alto Adige risultati più apprezzabili della altre regioni soprattutto
quelle a statuto ordinario.
L’autonomia di Trento e Bolzano è stata conquistata però con
molta fatica e non sono mancati episodi di violenza. Lo stato italiano infatti
è sempre stato molto restio a concedere autonomia alle province preferendo un
modello centralista.
La preferenza per il centralismo da parte dello stato
centrale ha origini molto antiche e affonda sia nella storia che nella politica
partitica.
Primo motivo risale all’unità d’Italia: La dinastia sabauda,
sotto la quale si compì l’unità, aveva origini francesi e spesso il loro
operato si ispirò direttamente allo stato francese, il quale era il modello più
centralista d’Europa. Quando Vittorio Emmanuele si trovo a dover governare il
paese appena unito, gli sembrò naturale copiare l’esempio più vicino a lui
ovvero la Francia.
Tale decisione però generò quasi subito molto scontento:
molti personaggi illustri del risorgimento erano infatti convinti federalisti e
mal digerirono quella che fu chiamata “piemontizzazione”.
Effettivamente l’Italia proveniva da una lunga storia di
stati regionali che nel tempo aveva sviluppato una loro identità ed una loro
cultura. Per molti sembrava più logico che l’Italia si ispirasse alla Germania,
paese dal passato simile al nostro sotto questo punto di vista.
La piemontizzazione continuò imperterrita fino alla Grande
Guerra e diventò più aspra sotto il fascismo, quando lingue locali e dialetti
furono ferocemente repressi.
La centralizzazione ha fortemente danneggiato la nostra
regione: subito dopo l’unità d’Italia tutte le energie del nuovo stato si
concentrarono sull’industrializzazione del triangolo Torino-Milano-Genova e per
tutto il resto del paese vi fu poco spazio. Unico sospiro di sollievo fu
l’adesione alla triplice alleanza dell’Italia che permise di mantenere una
certa apertura dei confini con l’Austria-Ungheria a tutto vantaggio del Friuli
che poteva così scambiare merci e manodopera con la Carinzia e la Slovenia.
La situazione si fece invece molto difficile con l’avvento
del fascismo: da quel momento in poi non solo i confini rimasero chiusi ma la
nostra regione, tradizionalmente abitata da minoranze slovene, croate e tedesche,
venne sottoposta ad una italianizzazione forzata. Quasi tutti gli autoctoni di
lingua tedesca furono mandati in Austria per effetto di un accordo con il
governo della neonata repubblica austriaca mentre le tensioni con la Jugoslavia
ebbero effetti molto negativi per le minoranza di lingua slava a lungo
perseguitate. Rapporti che si sono esacerbati durante la Seconda Guerra
Mondiale a causa del comportamento delle truppe d’occupazione italiane.
La fine del conflitto non riportò la normalità in regione:
la questione di Trieste e l’inizio della Guerra Fredda trasformarono il Friuli
in una zona di confine altamente fortificata. Dal 1946 fino al 1991 il Friuli
confinò con la socialista Jugoslavia e con la neutrale Austria.
Nonostante la costituzione prevedesse l’istituzione delle
regioni, di cui 5 a statuto speciale, tale dettato fu attuato solo nel 1963,
segno che il centralismo venne scelto anche dalla neonata repubblica.
Anche in tempi più recenti la scelta centralista ha sembrato
essere l’opzione preferita: la riforma del titolo V, nata con l’esigenza di
decentralizzare, ha fallito nel suo compito non essendo mai stata seguita da un
reale federalismo fiscale. Infine l’attuale crisi economica e la necessità dei
tagli ah duramente colpito gli enti locali che hanno viste fortemente limitate
le proprie possibilità d’azione.
Il secondo motivo risiede nella organizzazione dei partiti.
Quasi tutti i partiti della prima repubblica avevano una organizzazione molto
centralizzata poiché era necessario un ferreo controllo da parte della classe
dirigente del partito. Così il decentramento veniva visto con ostilità perché
poteva essere foriero di eventuali divisioni.
Risultato di queste politiche fu la nascita nei primi anni
’90 di movimenti ed istanze autonomiste sempre più forti che però alla fine non
riuscirono ad imporre la propria volontà. I movimenti federaliste, infatti,
sono rimasti schiacciati da un lato dal centralismo dei partiti romani e
dall’altro dalle istanze indipendentiste che con il loro agire finirono per
squalificare l’intero autonomismo come secessionismo.
Oggi noi possiamo legittimamente porci una domanda: perché
il Friuli non può godere a pieno della propria specialità? Un Friuli Venezia
Giulia diviso in due province autonome che trattengono sul territorio il 90%
delle proprie tasse potrebbe essere un bel passo avanti in direzione di una
maggiore autonomia e permetterebbe alla regione di venire meglio incontro alle
esigenze imposte dall’integrazione europea e dalla globalizzazione.
D.Deotto
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