mercoledì 30 aprile 2014

AREPA DAY A TRIBIL SUPERIORE DI STREGNA





Domenica 27 Aprile presso la frazione di Tribil Superiore di Stregna si è svolto il primo Arepa Day a cura della associazione Veneuropa.
La località prescelta per questo evento è un paesino molto piccolo adiacente al confine con la Slovenia. Gli ultimi 15 kilomentri del percorso sono molto tortuosi poiché la frazione è posta quasi in cima ad una collina, oltre la quale c’è la Slovenia. 
Non conoscendo il posto non avevo fatto benzina ed ho rischiato di rimanere a secco.
Noi di Udine Futuro e Presente siamo arrivati in loco più o meno all’ora di pranzo e siamo stati accolti dal benvenuto della presidente della associazione in Friuli Venezia Giulia Mara De Marco.
L’Arepa è un piatto tipico venezuelano: si tratta di un panino a base di farina di mais, acqua e sale, dal sapore molto simile alla nostra polenta.
La preparazione prevede che si mescolino gli ingredienti aggiungendo a poco a poco l’acqua fino a creare un impasto morbido che va lasciato riposare per 20 minuti. Si procede dividendo l’impasto in piccole palline che si dovranno poi schiacciare leggermente. Il tutto viene cotto per qualche minuto su una padella particolare.
L’Arepa a questo punto può essere mangiata normalmente come il pane oppure può essere tagliata a metà e farcita con un ripieno.
Alla festa abbiamo trovato molti tipi di ripieni: quello più classico era a base di formaggio e prosciutto ma erano presenti anche molti altri ripieni come per esempio uno delizioso a base di pollo, maionese ed avocado oppure il più tradizionale ripieno con fagioli neri e formaggio.  
Presenti anche ripieni a base di pollo e peperoni, uova strapazzate e vari tipi di carne. 
Oltre ai vari ripieni, c'era anche il Platano, un frutto tropicale appartenente alla famiglia delle banane, che però va cotto per essere consumato. Il sapore del frutto è molto particolare e ricorda molto una via di mezzo tra una banana ed una mela rennetta. 
Ho avuto modo di assaggiare ben tre ripieni diversi e sono rimasto molto soddisfatto: l’Arepa è un piatto molto gustoso ed alla fine, dopo tre di esse, ero veramente sazio.
Ad un certo punto è stata servita una curiosa bevanda venezuelana a base di latte e riso e dal sapore molto simile alla ricotta.
Infine è stato servito il Ponche Crema un liquore tipico venezuelano a base di ruhm, latte, zucchero e uova. 
La giornata passata a Stregna è stata molto positiva ed è senz’altro stata un’ottima occasione per conoscere una ricetta molto buona ma a me sconosciuta e sicuramente poco conosciuta in regione.
Nonostante la distanza ed il luogo non molto accessibile, la festa ha contato la presenza di un centinaio abbondante di persone, segno di una comunità vivace ed unita.
Per ospitare l'intera comunità era stata allestita una sala con dei tavoli in cui le persone potevano sedersi. Il cibo, le bevande ed i dolci venivano distribuite al bancone ma prima occorreva fare lo scontrino alla cassa. I prezzi erano molto accessibili e questo ha permesso a tutti di mangiare a piacimento. Le persone presenti erano tutte molto socevoli. Nonostante fosse la mia seconda presenza ad una iniziativa di Veneuropa e conoscessi poche persone, non ho mai avuto la sensazione di essere solo ed ho potuto conversare con molte persone.
Questa iniziativa è la prima di una serie che l’associazione Veneuropa vorrebbe realizzare per promuovere e far conoscere il nome del Venezuela fuori dai confini nazionali.
Noi di Udine Futuro e Presente cercheremo di aiutare il più possibile gli amici di Veneuropa nel loro intento e cercheremo di essere più presenti possibili alle loro manifestazioni e di raccontarle qui sul blog.

D.Deotto

lunedì 28 aprile 2014

LA CERIMONIA DEL 25 APRILE AD ADEGLIACCO




Venerdì 25 Aprile si è tenuta al cimitero di guerra inglese di Adegliacco una commemorazione per i soldati inglesi ed americani caduti durante la Seconda Guerra Mondiale in Friuli.
Presenti alla cerimonia il sindaco di Udine Furio Honsell, il sindaco di Tavagnacco Mario Pezzetta ed il prefetto di Udine. Erano inoltre presenti altri ufficiali ed ex combattenti dell’esercito e della brigata Osoppo.
Si è trattato di un episodio significativo perché il sacrifico delle truppe alleate in terra italiana viene quasi sempre messo in secondo piano rispetto ai morti della resistenza.
Tutto ciò è molto scorretto dal punto di vista storico perché i protagonisti principali della guerra in Italia furono proprio americani ed inglesi.
Senza nulla voler togliere ai combattenti della resistenza, bisogna comunque ammettere che senza l’intervento alleato ogni speranza di liberazione sarebbe stata vana.
Furono infatti gli alleati ad aiutare in maniera decisiva la resistenza italiana e tutte le resistenze europee sia dal punto di vista logistico che militare.
La resistenza francese, per esempio, fu ampiamente sostenuta da americani ed inglesi ed il loro ruolo fu decisivo nel mantenere in vita un movimento che altrimenti non avrebbe avuto alcuna speranza di vittoria. Stessa cosa si può dire per la resistenza olandese, regolarmente rifornita dai britannici.
L’importanza del ruolo alleato risulta evidente nel caso della resistenza jugoslava: nel corso dell’ultima guerra mondiale esistevano nei Balcani due distinti movimenti di resistenza: quello monarchico di Mihalovic e quello comunista di Tito. Inizialmente gli inglesi finanziarono i monarchici ed infatti fino al 1943 fu questo il movimento di resistenza più forte in Serbia. 
Nel 1944 gli inglesi cominciarono a vedere in Tito un comandante più coerente con le necessità belliche ed iniziarono a finanziarlo a scapito dei monarchici. Il risultato fu l’ascesa di Tito a leader incontrastato della resistenza jugoslava.
L’aiuto alleato non si limitò al rifornimento ma fu decisivo anche dal punto di vista militare: nessuna resistenza in Europa avrebbe mai potuto sconfiggere da sola l’esercito tedesco meglio armato ed equipaggiato. L’intervento militare anglo-americano indebolì e costrinse alla fuga le truppe tedesche aprendo ampi spazi ai movimenti partigiani.
L’Italia non fece eccezione a questa regola: il movimento di resistenza ricevette ingenti rifornimenti dagli alleati che gli permisero di sopravvivere in un momento in cui la vittoria sembrava lontana.
L’intervento militare alleato risulto decisivo ai fini della liberazione italiana: i partigiani infatti non avrebbero avuto alcuna possibilità di vittoria in uno scontro aperto contro le truppe tedesche.
La vittoria in Italia arrivò quando nella primavera del 1945 gli alleati sfondarono la linea gotica dilagando nella pianura padana e costringendo alla fuga le truppe tedesche. 
Fu in questo momento che i partigiani poterono scendere dalle montagne e liberare le città precedentemente occupate dai tedeschi.
Il contributo logistico e militare alleato deve essere quindi considerato determinante per la vittoria finale. La resistenza non avrebbe avuto nessuna possibilità di vittoria senza la collaborazione con inglesi ed americani.
Ammettere l’importanza del contributo angloamericano non significa sminuire il ruolo della resistenza ma fare una precisazione storica di notevole importanza nei confronti di chi vorrebbe strumentalizzare la festa per la liberazione nazionale in chiave di gestione del consenso interno.
Se oggi noi viviamo in un paese libero è merito della resistenza ma è parimenti merito degli alleati perché senza il loro decisivo intervento nulla di tutto ciò sarebbe accaduto. 
L'Italia dovrebbe prendere esempio dalla francia dove i morti della resistenza, quelli della Francia Libera di De Gaulle ed il sacrificio degli americani vengono ricodati tutti nello stesso giorno senza distinzioni di sorta. 

D.Deotto

giovedì 24 aprile 2014

L'EUROPA E' UNA ESPRESSIONE GEOGRAFICA!





Tra il 22 e il 25 Maggio le ventotto nazioni dell'Unione Europea saranno chiamate ad eleggere i propri rappresentati al parlamento europeo. In Italia le consultazioni avranno luogo il 25, giornata conclusiva di una tornata che, stando alle previsioni, potrebbe vedere il trionfo delle forze euro scettiche di sinistra e destra. Il sentimento di disaffezione verso l'Europa da parte di una parte sempre crescente dell'opinione pubblica è visto così forte al punto che molte forze politiche storicamente dissociate da questi movimenti stanno cercando di non perdere l'opportunità politica attuale mostrando un'insofferenza verso l'Unione che non può non sembrare di convenienza (si pensi alla neonata Forza Italia). Al contempo, forze politiche da sempre fortemente europeiste cercano di mantenere un profilo basso chiedendo al proprio elettorato di avere ancora pazienza e promettendo che le scelte europee, soprattutto in campo economico, alla fine consentiranno di superare il momento di recessione che ancora attraversa una gran parte dell'euro zona (vedasi in questo caso il PD che rinnova la sua promessa di un'Italia finalmente protagonista in Europa).
Indipendentemente dalla posizione adottata sembra che tutte le forze politiche siano quindi accomunate dalla necessità di mettere il più possibile al di fuori dal dibattito elettorale proprio l'Unione, la quale dovrebbe essere protagonista assoluta del dibattito stesso: la paura di toccare i nervi tesi di una gran parte della popolazione anche solo riferendosi a Bruxelles e Strasburgo sembra essere troppo forte. Questa situazione ha portato persino a mettere in secondo piano la grande novità di queste elezioni: la nomina diretta del Presidente del parlamento europeo (se volete una prova provate a chiedervi e a chiedere soltanto il nome dei candidati adesso che manca poco più di un mese alle elezioni).
In Italia una situazione del genere dove l'Europa è sostanzialmente assente nel dibattito per le elezioni europee è cosa vecchia e antecedente alla crisi economica. Storicamente nel nostro paese le elezioni per il parlamento europeo son state considerate dai partiti come sondaggi di medio termine in vista di amministrative e politiche. A Strasburgo spesso veniva mandato giusto il nome del candidato, il quale avendo in mano un'altra nomina in patria, nei fatti non presenziava ai lavori del parlamento europeo. In casi più fortunati invece i partiti italiani mandavano elementi di scarto, impresentabili in vista di occasioni più importanti o qualche elemento folkloristico. Quando, giustamente, si nota come uno dei paesi fondatori dell'Unione nonché tra i più grandi importanti abbia, in sede europea, un peso relativo così basso rispetto a Francia e Germania, la nostra classe politica dimentica di essere in gran parte responsabile di questa scomoda situazione, snobbando ciò che accadeva a Bruxelles o, al massimo, ricordandosi dell'Unione come utile capro espiatorio per evitare di dover rispondere a tematiche scomode.
Se Roma piange, Parigi, Berlino e Bruxelles tuttavia non hanno molto da ridere. Lo stato di denigrazione tenuto nei riguardi di paesi quali Italia e Spagna, realtà che dovrebbero costituire colonna portante per rendere l'Europa minimamente bilanciata, ma anche verso realtà più piccole quali Grecia, Irlanda e Portogallo (da qui il poco lusinghiero acronimo di P.I.I.G.S.  ad indicare paesi considerati dal resto dell'Europa più un problema che un'opportunità a causa della situazione economica particolarmente critica) può forse aver relegato un briciolo di prestigio internazionale gratuito in più in quest'ultimi anni, ma sta contribuendo a danneggiare l'Unione in misura decisamente maggiore di quanto possano mai sognare le forze euro scettiche. Quest'ultime, d'altra parte, non sono altro che la naturale conseguenza di una politica ventennale da parte europea che semplicemente non è, il che è molto peggio di una qualsiasi politica fallimentare.
Nel 1993, l'Europa dopo il Trattato di Maastricht, sembrava aver chiuso il suo primo ciclo di integrazione, legato a questioni economiche e di regolamentazioni particolari utili a cominciare a diffondere un senso d'appartenenza comune tra i cittadini facenti parti dell'allora neonata Unione.
Da quel momento in avanti, complice la caduta dell'Unione Sovietica e un nuovo ordine internazionale maggiormente favorevole alle mosse future dell'Europa, soprattutto verso i paesi dell'area centro-orientale del continente, i paesi dell'Unione sembravano pronti a dare il via ad un processo che avrebbe riguardato tematiche sempre più importanti, quali politica interna e soprattutto estera, in un passaggio progressivo da un'associazione legata da trattati ad una confederazione e, in futuro, probabilmente ad una federazione.
In quegli stessi anni d'altra parte infuriava la guerra civile nella ex-Jugoslavia, e l'Europa in quanto entità comune ancora non c'era: troppo presto, si pensava allora. Oggi, a più di vent'anni da Maastricht, una nuova crisi internazionale esplode alle porte dell'Unione e quest'ultima ancora latita. Le cancellerie europee non hanno perso tempo a rincorrere Washington, sempre meno interessata al teatro europeo, supplicando, ancora una volta, di assumersi le proprie responsabilità nei confronti del gigante coi piedi d'argilla russo.
L'Europa nel complesso, più che una semplice crisi economica, la quale non ha fatto altro che alzare il tappeto mostrando i cumuli di polvere accumulata nel corso dei decenni, sembra vivere una crisi d'identità che l'ha portata a fare passi indietro rispetto alla sé stessa di vent'anni prima.
Salvo la completa mancanza di ogni entusiasmo ai tempi invece assai diffuso (all'inizio degli anni novanta molti non solo sognavano, ma speravano di vedere una futura federazione europea, oggi accennare solo la cosa all'uomo della strada ha come conseguenza, al meglio, una secca serie di improperi),  è la classe dirigente che per prima sembra non aver più voglia, o intenzione, di far andare avanti il progetto. Si è alla ricerca paranoica dello status quo del secolo scorso, cullando l'illusione che se gli stati europei non si fanno la guerra la guerra non li riguarderà più (rimasugli di eurocentrismo duri a morire in una classe dirigente che, anagraficamente, ancora ricorda con nostalgia quel vecchio Mondo), anche perché, se mai la situazione fosse tanto seria da rimuovere il velo di boria da parte delle nazioni europee, soprattutto delle più grandi e legate a vecchi passati imperiali, sulla loro intoccabilità, ci saranno sempre gli Stati Uniti pronti a spendere dollari e sangue per conto loro (secondo rimasuglio eurocentrico un po' più sottile: convinti ancora di vivere negli anni '50, i politici europei sono convinti che gli Stati Uniti non possano fare a meno dei legami economici e culturali con l'Europa).
Questa voluta cecità da parte europea, che la crisi economica ha solo reso più sfacciata, ha creato, da Maastricht in poi, uno scenario sempre più simile a quello del piccolo giardinetto felice circondato sempre più da vicino da macerie fumanti. Nel corso degli ultimi vent'anni sono scoppiate  in sempre maggior numero e gravità, crisi internazionali o interne a paesi sempre più vicini ai confini dell'Unione, in ogni sua direttrice geografica. Dalle coste del Nord Africa e dalle colline della Siria che ancora sanguinano a seguito dei fatti della primavere araba, dai rapporti imperiali della Russia verso le realtà a lei confinanti sempre meno indipendenti, fino alla Turchia stessa, paese in costante limbo sulle porte dell'adesione all'Unione che sta cominciando a vivere una crisi interna e politica sempre più profonda.
Se si prende una qualsiasi cartina politica europea si può notare quanto siano numerose realtà di paesi in conflitto, falliti, o con al proprio interno realtà di fatto indipendenti o dipendenti da una terza nazione. In nessuna di queste sempre più numerose realtà l'Europa sembra decisa a voler seriamente intervenire, persino in quella che riguarda internamente i propri confini fin dal 2004: la Repubblica di Cipro, paese membro dell'Unione, la cui parte settentrionale del paese è da quarant'anni occupata dalla Turchia la quale ha messo su un proprio governo fantoccio. Una potenziale futura entità politica, la quale cova persino ambizioni di grande protagonista nello scenario internazionale del nuovo millennio, può essere minimamente credibile quando si rivela incapace di garantire i suoi stessi confini? Pensare che la faccenda di Cipro sia un caso particolare e isolato è, al meglio, da inguaribili ottimisti. La nuova politica russa verso l'Ucraina legata all'intervento più o meno armato a protezione delle comunità russe presenti nel paese dovrebbe drizzare le orecchie di Bruxelles.
Nell'Unione fanno parte due paesi, Lettonia ed Estonia, i quali oltre ad essere al confine con la Russia ospitano, al loro interno, una percentuale di russi equivalente a circa un terzo della loro popolazione totale, molto più alta di quella dei russi presenti in Ucraina. Con la loro ritrovata indipendenza, a seguito del crollo dell'Unione Sovietica questa situazione ha portato ad accese tensioni tra la componente russofona di questi due paesi e il resto della popolazione, smussata in parte dalla ripresa economica e dalla stabilità politica e sociale dimostrata in questi vent'anni.
Se però, in futuro, i conti di queste due realtà non fossero più così floridi o riesplodessero nuovi conflitti tra la parte baltica e quella russa, cosa vieterebbe a Mosca di ritentare quanto sta attualmente facendo in Ucraina? La risposta dovrebbe essere, e per questa ragione questi due paesi spesero tante energie per farvi parte, l'Unione Europea. Unione che però sembra voler rifuggire dalle proprie responsabilità, con la conseguenza che, alcune settimane addietro, i paesi baltici e la Polonia fecero manovre di confine col proprio esercito in reazione agli spostamenti dell'esercito russo.
Una deprimente sconfitta dell'Unione, molto più che qualsiasi risultato raggiungeranno le forze euroscettiche alle elezioni di Maggio.
A cavallo tra i due millenni, quando ancora si parlava di Europa tra le possibili nuove potenze dello scacchiere internazionale, l'Unione si presentava come futura “superpotenza civile”, una realtà che, memore della sua sanguinosa storia, fosse in grado di impegnarsi per la pace non solo al proprio interno ma anche nel resto del Mondo. Quella che però ai tempi poteva essere vista come una strategia comunicativa, oggi pare un'esplicita dichiarazione di pavidità, un voler rifuggire al Mondo a tutti i costi, invece che affacciarcisi e cercare realmente di portare avanti questi propri valori.
Il progetto europeo, più di mezzo secolo fa, nacque certamente con l'obiettivo di evitare nuovi bagni di sangue quali le due guerre mondiali. L'integrazione economica, i regolamenti in comuni, l'Erasmus e quel bollino CEE che trovate nei prodotti sono tutte cose accessorie a quel primo, e nobile, obiettivo che dominava il pensiero dei padri fondatori dell'Unione.
La pace tuttavia non si può realmente garantire soltanto con la forza del proprio “soft power”. Prima che “civile”, l'Unione non può prescindere dal diventare superpotenza, in quanto è fondamentale, di fronte a questioni dove la forza della diplomazia non è più sufficiente (si vedano le attuali gite primaverili dei tank russi tra le colline della Crimea). In questi casi, se si vogliono avere concrete possibilità di evitare la forza, è comunque necessario che la reazione percepita all'aggressione sia tale da scoraggiare l'aggressione stessa. Linee di pensiero che purtroppo sembrano impercorribili per un'Unione non solo pavida verso le sue potenziali rivali ma, soprattutto, verso sé stessa.

M. Annunziata

venerdì 18 aprile 2014

IL DEFICIT DEMOCRATICO DELL'UNIONE EUROPEA


Manca poco più di un mese alle elezioni europee e mai come in questa tornata elettorale la questione continetale è considerata rilevante.
Generalmente l'opinione pubblica non si è mai occupata troppo di tematiche rilevanti a livello europeo perchè le elezioni per il rinnovo del parlamento si sono sempre ridotte a dei semplici sondaggi sul consenso interno dei partiti del singolo paese.
Questa volta sembra che le cose vadano diversamente: i capigruppo dei vari schieramenti europei PPE, PSE, ALDE ed euroscettici sono più visibili che in passato ed i partiti nazionali fanno molti più riferimenti alla politiche pubbliche europee rispetto al passato.
Questo succede perchè la crisi economica ha messo in evidenza le debolezza dell'Unione e più o meno tutti sanno che il dibattito attorno all'europa sarà decisivo per il superamento della crisi economica.
Ma cosa c'è che non va nell'Unione?
L' Europa presenta oggettivamente dei deficit democratici sia dal punto di vista politico che economico.
La forma di governo europea viene tecnicamente definita governace multilivello e non si avvicina minimamente alle forme di governo tipiche degli stati nazionali.
In quasi tutte le nazioni occidentali c'è un parlamento eletto dai cittadini che detiene il potere legislativo, un governo che detiene il potere esecutivo e che è legato al parlamento da un rapporto di fiducia. In alternativa le forme di governo presidenziali prevedono un presidente eletto dal popolo ed un parlamento eletto che bilancia i poteri dell'esecutivo.
Niente del genere esiste in Europa: la Commissione Europea è nominata dagli stati membri e stessa cosa vale anche per il Consiglio. 
Il Parlamento Europeo, unica istituzione eletta direttamente dai cittadini, è privo di poteri rilevanti e spesso non esprime altro che pareri non vincolanti.
Ecco che si profila quindi il primo grande deficit dell'Europa: non esiste un modo per poter influenzare direttamente l'operato dell'Unione perchè l'unico organo eletto non ha reali poteri di influenza soprattutto sulla commissione che oggi come oggi ha i poteri di un esecutivo.
Per risolvere il problema si dovrebbe aumentare l'importanza del parlamento dando ad esso la facoltà di eleggere il capo della commissione. In questo modo la commissione godrebbe della fiducia del parlamento che potrebbe revocargliela nel momento in cui questa non rispettasse il mandato affidato dagli elettori. Solo con una mossa del genere l'Unione può recuperare quella fiducia che molti europei avevano in essa.
Il secondo deficit dell'Unione è in campo economico e va ripartito tra la mancanza di una politica fiscale comune ed i poteri limitati della BCE.
La mancanza di una politica fiscale comune è un punto molto importante: le politiche economiche infatti possono essere di tipo monetario e di tipo fiscale.
Le prime riguardano la gestione della quantità di moneta mentre le seconde riguardano più da vicino la spesa pubblica.
Un Europa incapace di coordinare la spesa pubblica dei vari stati è un'Europa debole incapace di implementare gli interventi strutturali necessari a risolvere le crisi economiche ed a migliorare la situazione dei paesi più disagiati.
Manca inoltre un coordinamento fiscale che imponga una tassazione simile su tutto il contiente: questo significa che si è andati nella direzione di una concorrenza fiscale anzichè di una convergenza. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l'impoverimento del sud Europa in favore dei paesi del nord.
La mancanza di una politica fiscale comune fa il paio con una BCE debole non dotata di tutti i poteri che spetterebbero ad una banca centrale.
Il compito della BCE infatti risulta essere solo quello di "garantire la stabilità dei prezzi" vale a dire che secondo le attuali regole la banca centra ha l'eslusivo compito di mantenere bassa l'inflazione.
Si tratta di compiti molto riduttivi perchè una vera banca centrale come potrebbe essere, per esempio, la FED possiede molti più poteri come, per esempio, quello di stampare moneta, di fare politiche monetari espansive e di avere voce rilevante in capitolo nelle manovre di tipo fiscale.
Tutto questo non avviene in Europa determinado il desolante scenario di una moneta unica senza alcuna governance o comunque senza una governance adatta.
Colmare i due deficit democratici qui illustarti è l'unico modo per l'Unione Europa per riuscire a riconquistare una fiducia sempre più in erosione.
Un esecutivo più vicino alle preferenze degli elettori ed una banca centrale capace di fare vere politiche economiche sono l'unica opportunità di ripresa per il vecchio continente. 

D.Deotto