Tra
il 22 e il 25 Maggio le ventotto nazioni dell'Unione Europea saranno chiamate
ad eleggere i propri rappresentati al parlamento europeo. In Italia le consultazioni
avranno luogo il 25, giornata conclusiva di una tornata che, stando alle
previsioni, potrebbe vedere il trionfo delle forze euro scettiche di sinistra e
destra. Il sentimento di disaffezione verso l'Europa da parte di una parte
sempre crescente dell'opinione pubblica è visto così forte al punto che molte
forze politiche storicamente dissociate da questi movimenti stanno cercando di
non perdere l'opportunità politica attuale mostrando un'insofferenza verso
l'Unione che non può non sembrare di convenienza (si pensi alla neonata Forza
Italia). Al contempo, forze politiche da sempre fortemente europeiste cercano
di mantenere un profilo basso chiedendo al proprio elettorato di avere ancora
pazienza e promettendo che le scelte europee, soprattutto in campo economico,
alla fine consentiranno di superare il momento di recessione che ancora
attraversa una gran parte dell'euro zona (vedasi in questo caso il PD che
rinnova la sua promessa di un'Italia finalmente protagonista in Europa).
Indipendentemente
dalla posizione adottata sembra che tutte le forze politiche siano quindi
accomunate dalla necessità di mettere il più possibile al di fuori dal
dibattito elettorale proprio l'Unione, la quale dovrebbe essere protagonista
assoluta del dibattito stesso: la paura di toccare i nervi tesi di una gran
parte della popolazione anche solo riferendosi a Bruxelles e Strasburgo sembra
essere troppo forte. Questa situazione ha portato persino a mettere in secondo
piano la grande novità di queste elezioni: la nomina diretta del Presidente del
parlamento europeo (se volete una prova provate a chiedervi e a chiedere
soltanto il nome dei candidati adesso che manca poco più di un mese alle
elezioni).
In
Italia una situazione del genere dove l'Europa è sostanzialmente assente nel
dibattito per le elezioni europee è cosa vecchia e antecedente alla crisi
economica. Storicamente nel nostro paese le elezioni per il parlamento europeo
son state considerate dai partiti come sondaggi di medio termine in vista di
amministrative e politiche. A Strasburgo spesso veniva mandato giusto il nome
del candidato, il quale avendo in mano un'altra nomina in patria, nei fatti non
presenziava ai lavori del parlamento europeo. In casi più fortunati invece i
partiti italiani mandavano elementi di scarto, impresentabili in vista di
occasioni più importanti o qualche elemento folkloristico. Quando, giustamente,
si nota come uno dei paesi fondatori dell'Unione nonché tra i più grandi
importanti abbia, in sede europea, un peso relativo così basso rispetto a
Francia e Germania, la nostra classe politica dimentica di essere in gran parte
responsabile di questa scomoda situazione, snobbando ciò che accadeva a
Bruxelles o, al massimo, ricordandosi dell'Unione come utile capro espiatorio
per evitare di dover rispondere a tematiche scomode.
Se
Roma piange, Parigi, Berlino e Bruxelles tuttavia non hanno molto da ridere. Lo
stato di denigrazione tenuto nei riguardi di paesi quali Italia e Spagna,
realtà che dovrebbero costituire colonna portante per rendere l'Europa
minimamente bilanciata, ma anche verso realtà più piccole quali Grecia, Irlanda
e Portogallo (da qui il poco lusinghiero acronimo di P.I.I.G.S. ad indicare paesi considerati dal resto
dell'Europa più un problema che un'opportunità a causa della situazione
economica particolarmente critica) può forse aver relegato un briciolo di
prestigio internazionale gratuito in più in quest'ultimi anni, ma sta
contribuendo a danneggiare l'Unione in misura decisamente maggiore di quanto
possano mai sognare le forze euro scettiche. Quest'ultime, d'altra parte, non
sono altro che la naturale conseguenza di una politica ventennale da parte
europea che semplicemente non è, il che è molto peggio di una qualsiasi
politica fallimentare.
Nel
1993, l'Europa dopo il Trattato di Maastricht, sembrava aver chiuso il suo
primo ciclo di integrazione, legato a questioni economiche e di
regolamentazioni particolari utili a cominciare a diffondere un senso
d'appartenenza comune tra i cittadini facenti parti dell'allora neonata Unione.
Da quel
momento in avanti, complice la caduta dell'Unione Sovietica e un nuovo ordine
internazionale maggiormente favorevole alle mosse future dell'Europa,
soprattutto verso i paesi dell'area centro-orientale del continente, i paesi
dell'Unione sembravano pronti a dare il via ad un processo che avrebbe
riguardato tematiche sempre più importanti, quali politica interna e
soprattutto estera, in un passaggio progressivo da un'associazione legata da
trattati ad una confederazione e, in futuro, probabilmente ad una federazione.
In
quegli stessi anni d'altra parte infuriava la guerra civile nella
ex-Jugoslavia, e l'Europa in quanto entità comune ancora non c'era: troppo
presto, si pensava allora. Oggi, a più di vent'anni da Maastricht, una nuova
crisi internazionale esplode alle porte dell'Unione e quest'ultima ancora
latita. Le cancellerie europee non hanno perso tempo a rincorrere Washington,
sempre meno interessata al teatro europeo, supplicando, ancora una volta, di
assumersi le proprie responsabilità nei confronti del gigante coi piedi
d'argilla russo.
L'Europa
nel complesso, più che una semplice crisi economica, la quale non ha fatto
altro che alzare il tappeto mostrando i cumuli di polvere accumulata nel corso
dei decenni, sembra vivere una crisi d'identità che l'ha portata a fare passi
indietro rispetto alla sé stessa di vent'anni prima.
Salvo
la completa mancanza di ogni entusiasmo ai tempi invece assai diffuso
(all'inizio degli anni novanta molti non solo sognavano, ma speravano di vedere
una futura federazione europea, oggi accennare solo la cosa all'uomo della
strada ha come conseguenza, al meglio, una secca serie di improperi), è la classe dirigente che per prima sembra
non aver più voglia, o intenzione, di far andare avanti il progetto. Si è alla
ricerca paranoica dello status quo del secolo scorso, cullando l'illusione che
se gli stati europei non si fanno la guerra la guerra non li riguarderà più
(rimasugli di eurocentrismo duri a morire in una classe dirigente che,
anagraficamente, ancora ricorda con nostalgia quel vecchio Mondo), anche
perché, se mai la situazione fosse tanto seria da rimuovere il velo di boria da
parte delle nazioni europee, soprattutto delle più grandi e legate a vecchi
passati imperiali, sulla loro intoccabilità, ci saranno sempre gli Stati Uniti
pronti a spendere dollari e sangue per conto loro (secondo rimasuglio
eurocentrico un po' più sottile: convinti ancora di vivere negli anni '50, i
politici europei sono convinti che gli Stati Uniti non possano fare a meno dei
legami economici e culturali con l'Europa).
Questa
voluta cecità da parte europea, che la crisi economica ha solo reso più
sfacciata, ha creato, da Maastricht in poi, uno scenario sempre più simile a
quello del piccolo giardinetto felice circondato sempre più da vicino da macerie
fumanti. Nel corso degli ultimi vent'anni sono scoppiate in sempre maggior numero e gravità, crisi
internazionali o interne a paesi sempre più vicini ai confini dell'Unione, in
ogni sua direttrice geografica. Dalle coste del Nord Africa e dalle colline
della Siria che ancora sanguinano a seguito dei fatti della primavere araba,
dai rapporti imperiali della Russia verso le realtà a lei confinanti sempre
meno indipendenti, fino alla Turchia stessa, paese in costante limbo sulle
porte dell'adesione all'Unione che sta cominciando a vivere una crisi interna e
politica sempre più profonda.
Se si
prende una qualsiasi cartina politica europea si può notare quanto siano
numerose realtà di paesi in conflitto, falliti, o con al proprio interno realtà
di fatto indipendenti o dipendenti da una terza nazione. In nessuna di queste
sempre più numerose realtà l'Europa sembra decisa a voler seriamente
intervenire, persino in quella che riguarda internamente i propri confini fin
dal 2004: la Repubblica di Cipro, paese membro dell'Unione, la cui parte
settentrionale del paese è da quarant'anni occupata dalla Turchia la quale ha
messo su un proprio governo fantoccio. Una potenziale futura entità politica,
la quale cova persino ambizioni di grande protagonista nello scenario
internazionale del nuovo millennio, può essere minimamente credibile quando si
rivela incapace di garantire i suoi stessi confini? Pensare che la faccenda di
Cipro sia un caso particolare e isolato è, al meglio, da inguaribili ottimisti.
La nuova politica russa verso l'Ucraina legata all'intervento più o meno armato
a protezione delle comunità russe presenti nel paese dovrebbe drizzare le
orecchie di Bruxelles.
Nell'Unione
fanno parte due paesi, Lettonia ed Estonia, i quali oltre ad essere al confine
con la Russia ospitano, al loro interno, una percentuale di russi equivalente a
circa un terzo della loro popolazione totale, molto più alta di quella dei
russi presenti in Ucraina. Con la loro ritrovata indipendenza, a seguito del
crollo dell'Unione Sovietica questa situazione ha portato ad accese tensioni
tra la componente russofona di questi due paesi e il resto della popolazione,
smussata in parte dalla ripresa economica e dalla stabilità politica e sociale
dimostrata in questi vent'anni.
Se
però, in futuro, i conti di queste due realtà non fossero più così floridi o
riesplodessero nuovi conflitti tra la parte baltica e quella russa, cosa
vieterebbe a Mosca di ritentare quanto sta attualmente facendo in Ucraina? La
risposta dovrebbe essere, e per questa ragione questi due paesi spesero tante
energie per farvi parte, l'Unione Europea. Unione che però sembra voler
rifuggire dalle proprie responsabilità, con la conseguenza che, alcune
settimane addietro, i paesi baltici e la Polonia fecero manovre di confine col
proprio esercito in reazione agli spostamenti dell'esercito russo.
Una
deprimente sconfitta dell'Unione, molto più che qualsiasi risultato
raggiungeranno le forze euroscettiche alle elezioni di Maggio.
A
cavallo tra i due millenni, quando ancora si parlava di Europa tra le possibili
nuove potenze dello scacchiere internazionale, l'Unione si presentava come
futura “superpotenza civile”, una realtà che, memore della sua sanguinosa
storia, fosse in grado di impegnarsi per la pace non solo al proprio interno ma
anche nel resto del Mondo. Quella che però ai tempi poteva essere vista come
una strategia comunicativa, oggi pare un'esplicita dichiarazione di pavidità,
un voler rifuggire al Mondo a tutti i costi, invece che affacciarcisi e cercare
realmente di portare avanti questi propri valori.
Il
progetto europeo, più di mezzo secolo fa, nacque certamente con l'obiettivo di
evitare nuovi bagni di sangue quali le due guerre mondiali. L'integrazione
economica, i regolamenti in comuni, l'Erasmus e quel bollino CEE che trovate
nei prodotti sono tutte cose accessorie a quel primo, e nobile, obiettivo che
dominava il pensiero dei padri fondatori dell'Unione.
La
pace tuttavia non si può realmente garantire soltanto con la forza del proprio
“soft power”. Prima che “civile”, l'Unione non può prescindere dal diventare
superpotenza, in quanto è fondamentale, di fronte a questioni dove la forza
della diplomazia non è più sufficiente (si vedano le attuali gite primaverili
dei tank russi tra le colline della Crimea). In questi casi, se si vogliono
avere concrete possibilità di evitare la forza, è comunque necessario che la
reazione percepita all'aggressione sia tale da scoraggiare l'aggressione
stessa. Linee di pensiero che purtroppo sembrano impercorribili per un'Unione
non solo pavida verso le sue potenziali rivali ma, soprattutto, verso sé
stessa.
M. Annunziata
Nessun commento:
Posta un commento
scrivi la tua opinione...