giovedì 24 aprile 2014

L'EUROPA E' UNA ESPRESSIONE GEOGRAFICA!





Tra il 22 e il 25 Maggio le ventotto nazioni dell'Unione Europea saranno chiamate ad eleggere i propri rappresentati al parlamento europeo. In Italia le consultazioni avranno luogo il 25, giornata conclusiva di una tornata che, stando alle previsioni, potrebbe vedere il trionfo delle forze euro scettiche di sinistra e destra. Il sentimento di disaffezione verso l'Europa da parte di una parte sempre crescente dell'opinione pubblica è visto così forte al punto che molte forze politiche storicamente dissociate da questi movimenti stanno cercando di non perdere l'opportunità politica attuale mostrando un'insofferenza verso l'Unione che non può non sembrare di convenienza (si pensi alla neonata Forza Italia). Al contempo, forze politiche da sempre fortemente europeiste cercano di mantenere un profilo basso chiedendo al proprio elettorato di avere ancora pazienza e promettendo che le scelte europee, soprattutto in campo economico, alla fine consentiranno di superare il momento di recessione che ancora attraversa una gran parte dell'euro zona (vedasi in questo caso il PD che rinnova la sua promessa di un'Italia finalmente protagonista in Europa).
Indipendentemente dalla posizione adottata sembra che tutte le forze politiche siano quindi accomunate dalla necessità di mettere il più possibile al di fuori dal dibattito elettorale proprio l'Unione, la quale dovrebbe essere protagonista assoluta del dibattito stesso: la paura di toccare i nervi tesi di una gran parte della popolazione anche solo riferendosi a Bruxelles e Strasburgo sembra essere troppo forte. Questa situazione ha portato persino a mettere in secondo piano la grande novità di queste elezioni: la nomina diretta del Presidente del parlamento europeo (se volete una prova provate a chiedervi e a chiedere soltanto il nome dei candidati adesso che manca poco più di un mese alle elezioni).
In Italia una situazione del genere dove l'Europa è sostanzialmente assente nel dibattito per le elezioni europee è cosa vecchia e antecedente alla crisi economica. Storicamente nel nostro paese le elezioni per il parlamento europeo son state considerate dai partiti come sondaggi di medio termine in vista di amministrative e politiche. A Strasburgo spesso veniva mandato giusto il nome del candidato, il quale avendo in mano un'altra nomina in patria, nei fatti non presenziava ai lavori del parlamento europeo. In casi più fortunati invece i partiti italiani mandavano elementi di scarto, impresentabili in vista di occasioni più importanti o qualche elemento folkloristico. Quando, giustamente, si nota come uno dei paesi fondatori dell'Unione nonché tra i più grandi importanti abbia, in sede europea, un peso relativo così basso rispetto a Francia e Germania, la nostra classe politica dimentica di essere in gran parte responsabile di questa scomoda situazione, snobbando ciò che accadeva a Bruxelles o, al massimo, ricordandosi dell'Unione come utile capro espiatorio per evitare di dover rispondere a tematiche scomode.
Se Roma piange, Parigi, Berlino e Bruxelles tuttavia non hanno molto da ridere. Lo stato di denigrazione tenuto nei riguardi di paesi quali Italia e Spagna, realtà che dovrebbero costituire colonna portante per rendere l'Europa minimamente bilanciata, ma anche verso realtà più piccole quali Grecia, Irlanda e Portogallo (da qui il poco lusinghiero acronimo di P.I.I.G.S.  ad indicare paesi considerati dal resto dell'Europa più un problema che un'opportunità a causa della situazione economica particolarmente critica) può forse aver relegato un briciolo di prestigio internazionale gratuito in più in quest'ultimi anni, ma sta contribuendo a danneggiare l'Unione in misura decisamente maggiore di quanto possano mai sognare le forze euro scettiche. Quest'ultime, d'altra parte, non sono altro che la naturale conseguenza di una politica ventennale da parte europea che semplicemente non è, il che è molto peggio di una qualsiasi politica fallimentare.
Nel 1993, l'Europa dopo il Trattato di Maastricht, sembrava aver chiuso il suo primo ciclo di integrazione, legato a questioni economiche e di regolamentazioni particolari utili a cominciare a diffondere un senso d'appartenenza comune tra i cittadini facenti parti dell'allora neonata Unione.
Da quel momento in avanti, complice la caduta dell'Unione Sovietica e un nuovo ordine internazionale maggiormente favorevole alle mosse future dell'Europa, soprattutto verso i paesi dell'area centro-orientale del continente, i paesi dell'Unione sembravano pronti a dare il via ad un processo che avrebbe riguardato tematiche sempre più importanti, quali politica interna e soprattutto estera, in un passaggio progressivo da un'associazione legata da trattati ad una confederazione e, in futuro, probabilmente ad una federazione.
In quegli stessi anni d'altra parte infuriava la guerra civile nella ex-Jugoslavia, e l'Europa in quanto entità comune ancora non c'era: troppo presto, si pensava allora. Oggi, a più di vent'anni da Maastricht, una nuova crisi internazionale esplode alle porte dell'Unione e quest'ultima ancora latita. Le cancellerie europee non hanno perso tempo a rincorrere Washington, sempre meno interessata al teatro europeo, supplicando, ancora una volta, di assumersi le proprie responsabilità nei confronti del gigante coi piedi d'argilla russo.
L'Europa nel complesso, più che una semplice crisi economica, la quale non ha fatto altro che alzare il tappeto mostrando i cumuli di polvere accumulata nel corso dei decenni, sembra vivere una crisi d'identità che l'ha portata a fare passi indietro rispetto alla sé stessa di vent'anni prima.
Salvo la completa mancanza di ogni entusiasmo ai tempi invece assai diffuso (all'inizio degli anni novanta molti non solo sognavano, ma speravano di vedere una futura federazione europea, oggi accennare solo la cosa all'uomo della strada ha come conseguenza, al meglio, una secca serie di improperi),  è la classe dirigente che per prima sembra non aver più voglia, o intenzione, di far andare avanti il progetto. Si è alla ricerca paranoica dello status quo del secolo scorso, cullando l'illusione che se gli stati europei non si fanno la guerra la guerra non li riguarderà più (rimasugli di eurocentrismo duri a morire in una classe dirigente che, anagraficamente, ancora ricorda con nostalgia quel vecchio Mondo), anche perché, se mai la situazione fosse tanto seria da rimuovere il velo di boria da parte delle nazioni europee, soprattutto delle più grandi e legate a vecchi passati imperiali, sulla loro intoccabilità, ci saranno sempre gli Stati Uniti pronti a spendere dollari e sangue per conto loro (secondo rimasuglio eurocentrico un po' più sottile: convinti ancora di vivere negli anni '50, i politici europei sono convinti che gli Stati Uniti non possano fare a meno dei legami economici e culturali con l'Europa).
Questa voluta cecità da parte europea, che la crisi economica ha solo reso più sfacciata, ha creato, da Maastricht in poi, uno scenario sempre più simile a quello del piccolo giardinetto felice circondato sempre più da vicino da macerie fumanti. Nel corso degli ultimi vent'anni sono scoppiate  in sempre maggior numero e gravità, crisi internazionali o interne a paesi sempre più vicini ai confini dell'Unione, in ogni sua direttrice geografica. Dalle coste del Nord Africa e dalle colline della Siria che ancora sanguinano a seguito dei fatti della primavere araba, dai rapporti imperiali della Russia verso le realtà a lei confinanti sempre meno indipendenti, fino alla Turchia stessa, paese in costante limbo sulle porte dell'adesione all'Unione che sta cominciando a vivere una crisi interna e politica sempre più profonda.
Se si prende una qualsiasi cartina politica europea si può notare quanto siano numerose realtà di paesi in conflitto, falliti, o con al proprio interno realtà di fatto indipendenti o dipendenti da una terza nazione. In nessuna di queste sempre più numerose realtà l'Europa sembra decisa a voler seriamente intervenire, persino in quella che riguarda internamente i propri confini fin dal 2004: la Repubblica di Cipro, paese membro dell'Unione, la cui parte settentrionale del paese è da quarant'anni occupata dalla Turchia la quale ha messo su un proprio governo fantoccio. Una potenziale futura entità politica, la quale cova persino ambizioni di grande protagonista nello scenario internazionale del nuovo millennio, può essere minimamente credibile quando si rivela incapace di garantire i suoi stessi confini? Pensare che la faccenda di Cipro sia un caso particolare e isolato è, al meglio, da inguaribili ottimisti. La nuova politica russa verso l'Ucraina legata all'intervento più o meno armato a protezione delle comunità russe presenti nel paese dovrebbe drizzare le orecchie di Bruxelles.
Nell'Unione fanno parte due paesi, Lettonia ed Estonia, i quali oltre ad essere al confine con la Russia ospitano, al loro interno, una percentuale di russi equivalente a circa un terzo della loro popolazione totale, molto più alta di quella dei russi presenti in Ucraina. Con la loro ritrovata indipendenza, a seguito del crollo dell'Unione Sovietica questa situazione ha portato ad accese tensioni tra la componente russofona di questi due paesi e il resto della popolazione, smussata in parte dalla ripresa economica e dalla stabilità politica e sociale dimostrata in questi vent'anni.
Se però, in futuro, i conti di queste due realtà non fossero più così floridi o riesplodessero nuovi conflitti tra la parte baltica e quella russa, cosa vieterebbe a Mosca di ritentare quanto sta attualmente facendo in Ucraina? La risposta dovrebbe essere, e per questa ragione questi due paesi spesero tante energie per farvi parte, l'Unione Europea. Unione che però sembra voler rifuggire dalle proprie responsabilità, con la conseguenza che, alcune settimane addietro, i paesi baltici e la Polonia fecero manovre di confine col proprio esercito in reazione agli spostamenti dell'esercito russo.
Una deprimente sconfitta dell'Unione, molto più che qualsiasi risultato raggiungeranno le forze euroscettiche alle elezioni di Maggio.
A cavallo tra i due millenni, quando ancora si parlava di Europa tra le possibili nuove potenze dello scacchiere internazionale, l'Unione si presentava come futura “superpotenza civile”, una realtà che, memore della sua sanguinosa storia, fosse in grado di impegnarsi per la pace non solo al proprio interno ma anche nel resto del Mondo. Quella che però ai tempi poteva essere vista come una strategia comunicativa, oggi pare un'esplicita dichiarazione di pavidità, un voler rifuggire al Mondo a tutti i costi, invece che affacciarcisi e cercare realmente di portare avanti questi propri valori.
Il progetto europeo, più di mezzo secolo fa, nacque certamente con l'obiettivo di evitare nuovi bagni di sangue quali le due guerre mondiali. L'integrazione economica, i regolamenti in comuni, l'Erasmus e quel bollino CEE che trovate nei prodotti sono tutte cose accessorie a quel primo, e nobile, obiettivo che dominava il pensiero dei padri fondatori dell'Unione.
La pace tuttavia non si può realmente garantire soltanto con la forza del proprio “soft power”. Prima che “civile”, l'Unione non può prescindere dal diventare superpotenza, in quanto è fondamentale, di fronte a questioni dove la forza della diplomazia non è più sufficiente (si vedano le attuali gite primaverili dei tank russi tra le colline della Crimea). In questi casi, se si vogliono avere concrete possibilità di evitare la forza, è comunque necessario che la reazione percepita all'aggressione sia tale da scoraggiare l'aggressione stessa. Linee di pensiero che purtroppo sembrano impercorribili per un'Unione non solo pavida verso le sue potenziali rivali ma, soprattutto, verso sé stessa.

M. Annunziata

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