Cresce
l'attenzione delle opinioni pubbliche mondiali sul conflitto tra
israeliani e palestinesi: una spinta verso la pace o combustibile per
i fuochi della guerra?
Grazie
alla mediazione del governo egiziano, Israele ed Hamas hanno trovato
l'accordo per una tregua a lungo termine, “illimitata”, partita
il 28 di Agosto.
Dalle
spoglie fumanti di Gaza, Hamas rivendica la vittoria della sua
“resistenza”, nonostante macabro prezzo di numerose vite civili (
attualmente sono stimati quasi duemila palestinesi uccisi) inflitte
dalle
Israel Defence Forces (IDF),
che a loro volta reclamano di aver inflitto “un colpo devastante ad
Hamas”, nonostante non siano riuscite durante il conflitto ad
impedire all'organizzazione islamista di lanciare circa tremila razzi
verso il territori israeliano. Se non c'è stata strage anche
dall'altra parte del confine il merito va al sofisticato sistema di
difesa antri-missile Iron
Dome, in
grado di intercettare la quasi totalità dei lanci di Hamas prima
ancora che toccassero il suolo.
Attualmente
è ancora prematuro stabilire quanto sarà stabile questa nuova
tregua, ma per quanto sia finalmente cessato il boato delle bombe e
dei razzi, prosegue instancabile il mormorio delle voci di tutto il
Mondo su quanto è accaduto e cosa potrebbe accadere ora in quel
piccolo fazzoletto di terra grande circa quanto la Campania.
Nel
corso della stagione estiva non c'è stato movimento, in questa
terra, che non sia stato minuziosamente osservato e documentato da
parte dell'opinione pubblica mondiale. Dalle poderose manifestazioni
nelle grandi città europee contrarie al conflitto, alla campagna di
boicottaggio sui prodotti di fabbricazione israeliana o di grosse
multinazionali considerate “complici” (perlopiù grosse firme
americane ed europee), fino alla mole impressionante d’immagini,
dati, statistiche, slogan, riflessioni, prodotti al momento
sull'evolversi del conflitto e poi diffuse sui social media. Per non
parlare del materiale prodotto sulla base di reazioni a caldo al
conflitto stesso, come la compagnia di contro-boicotaggio ai
prodotti israeliani in cui sarcasticamente i boicottanti vengono
chiamati ad una maggiore coerenza, e a spegnere del tutto il proprio
computer a causa delle componenti informatiche di fabbricazione e
ideazione israeliana.
La
sola certezza riguardo questo conflitto viene perciò dall’esterno:
al momento, non esiste caso internazionale che susciti una così
fervida, in alcuni casi feroce, risposta nel resto del mondo come il
conflitto israelo-palestinese. Le disparate, numerose e spesso
imprevedibili reazioni al conflitto sono diventate una questione
internazionale (in alcuni casi interna, a cominciare dai timori delle
comunità ebraiche europee che nel mare
magnum
delle proteste anti sioniste trovino sfogo frange antisemite pronte
ad attaccare la comunità) al pari del conflitto vero e proprio e
dossier a riguardo, adornano le scrivanie di Presidenti e Ministri di
mezzo mondo, forse in dose ancora maggiore a quelli inerenti la
guerra vera e propria.
La
massiccia esposizione mediatica della questione israelo-palestinese
non è certo la novità di questa recente escalation.
L'operazione Piombo
Fuso del
2009, simile, quasi speculare a quella attuale, il conflitto tra
Israele e Hezbollah, le due intifade,
fino a risalire alle guerre tra Israele e le coalizioni di Stati
arabi, hanno sempre avuto un'attenzione particolare da parte delle
opinioni pubbliche mondiali.
L'importanza
attribuita al conflitto israelo-palestinese potrebbe dunque essere
una sorta di sedimentazione della memoria collettiva, dove
l'interesse verso l'attuale escalation
si aggiunge a quello manifestato per la miriade di eventi passati.
Eppure l'opinione pubblica di solito tende, col passare del tempo, a
disinteressarsi al conflitto, o a considerarlo endemico, un elemento
naturale nel mondo in cui si vive, e come si può ben immagine ciò
che viene considerato “routine” non fa' notizia. Quanti tra gli
attivisti internazionali dell'ultima ora, sono al corrente delle
cruciali elezioni in Afghanistan avvenute ad Aprile e della
contemporanea, e inquietante, avanzata militare dei talebani? Ebbene
la questione israelo-palestine è ben più vecchia del conflitto
afghano, cominciata sessant'anni prima (quasi un secolo, se si vuole
tener conto delle lotte tra ebrei e arabi durante il mandato
britannico in Palestina e antecedenti alla dichiarazione dello Stato
ebraico). Un’ulteriore differenza col teatro afghano, che, nel bene
e nel male, sta evolvendosi, mai come oggi la situazione tra
israeliani e palestinesi pare cristallizzata. Sia Hamas, sia Israele,
sono consapevoli che i combattimenti attuali non porteranno a
particolari mutamenti nel conflitto. Anzi, il loro intervento è
proprio la prova di una situazione di stallo dove entrambi i
contendenti si sentono chiamati a ribadire il loro status
per mezzo delle armi. Hamas ne ha bisogno per riconsolidare la sua
leadership nella “resistenza palestinese”. Il LIKUD,
partito a capo dell'attuale governo israeliano, ha bisogno della
linea dura per ribadire la sua politica basata sulla sicurezza ad
ogni costo.
Molti
potrebbero allora pensare che la ragione stia piuttosto nei tragici
numeri della guerra e, in particolare, nelle migliaia di morti e di
feriti tra i civili palestinesi, ragione principale delle
mobilitazioni nelle piazze delle più grandi città del mondo.
Senza
voler nulla togliere alla tragicità della situazione di chi vive a
Gaza, basta, tuttavia, spostarsi di poco più a Nord, in Siria, per
assistere a numeri tristemente più elevati (l'ordine qui è di
centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati: un paese per
metà ormai evacuato dal teatro dei combattimenti tra il regime di
Assad e il multiforme fronte dei ribelli, con l'Isis
che nel frattempo combatte contro entrambi).
Inesorabilmente,
il teorico del complotto potrebbe suggerire una non meglio spiegata
manovra dei media per catalizzare l'opinione pubblica su questo
specifico conflitto. Indipendentemente dal fatto che uno creda o
meno, alle capacità dei media di “creare l'opinione”, non sembra
essere decisamente questo il caso, in quanto la questione
israelo-palestinese è forse la sola al mondo a essere costantemente
seguita anche quando non ci sono escalation
in corso e, di conseguenza, i media non sono presenti in massa a
documentarne i fatti.
Per
esclusione si potrebbe dedurre che la sovra esposizione del conflitto
e la massiccia copertura mediatica, spesso e volentieri considerata
comunque insufficiente, è la diretta conseguenza dell'enorme
interesse delle singole persone sul tema stesso.
Da
dove ha origine questo interesse? Se probabilmente non ci sono
ragioni oggettive, legate alla dinamica stessa dei fatti, se ne può
dedurre che sta tutto nella scelta particolare dei singoli individui.
La
sola, agghiacciante, spiegazione, è che ciò che accade in Palestina
è così tanto seguito perché alla gente piace seguirlo, e per
quanto si possa giustamente considerare disgustosa l'idea di
associare gli orrori di una guerra all'apprezzamento di pasciuti
spettatori distanti dal conflitto, non si può non pensare che i più
seguono questa guerra come una sorta di serie televisiva dove le
parti in causa sono personaggi verso i quali si può provare più o
meno simpatia.
La
veemenza delle posizioni prese da chi segue il conflitto è, difatti,
più simile a chi è appena uscito da un cinema piuttosto di chi sta
leggendo una notizia di cronaca estera. Romanzare guerre e fatti di
sangue non è di certo un fenomeno particolare, la letteratura
occidentale ha avuto inizio dall'opera epica di Omero sulla guerra di
Troia.
La
guerra in Palestina invece sembra non aver bisogno di aiuti da parte
dell'arte per riuscire a catturare così tanto interesse. Ogni guerra
tende, purtroppo, a farsi romanzo, quella in Palestina a quanto pare
sembra avere caratteristiche uniche che rendono la sua storia più
popolare delle altre (una possibile applicazione della “teoria
della scimmia instancabile” applicata alle faccende internazionali.
Dal disordine dell'anarchia internazionale che certo non risponde a
criteri di “popolarità”, ecco apparire una questione che
monopolizza l'attenzione delle opinioni pubbliche del resto del
Mondo).
Andando
a sbirciare tra le miriadi di posizioni prese riguardo il conflitto,
ci si rende conto che nella mente degli esseri umani del 2014
esistono un'infinità di israeliani e palestinesi completamente
diversi tra di loro. Gli israeliani possono essere visti come
guardiani della modernità contro la barbarie o, partendo dalla
stessa visione di Israele “bastione dell'Occidente”, come una
propaggine dell'imperialismo e dell'arroganza occidentale verso le
popolazioni di altre culture. L'abissale differenziale tecnologico
tra l'esercito israeliano e la milizia di Hamas può essere fonte di
elogio a sostegno di Israele oppure di biasimo nei suoi riguardi,
perché combattere non ad “armi pari” può essere considerato
scorretto, se non immorale (come sottolineato dal filosofo Vattimo
quando sostenne, scatenando enormi polemiche, che l'Europa era tenuta
a rifornire militarmente Hamas).
I
palestinesi dal canto loro possono essere visti come eroici
guerriglieri e partigiani o spietati tagliagole che se non fanno
stragi è solo perché Israele si guarda bene dal permettere che
prendano armi adatte per compierle. Gaza spesso viene definita
“sotto assedio”, ma per altri invece è Israele ad esserlo,
circondata da paesi considerati ostili nei suoi confronti.
Queste
sono solo un pugno di visioni in merito al conflitto, le più note,
forse banali, ma che la visione specifica di chi sullo schermo
guarda i combattimenti a Gaza sia eroi contro assassini, buoni contro
cattivi, santi contro demoni, soldati contro terroristi, martiri
contro infedeli, è sempre più raro che chi segue il conflitto
rifletta sul fatto che, a prendere parte al conflitto, sono uomini e
donne che sostanzialmente la parte non se la sono scelta, ma si
ritrovano sul palco loro malgrado.
Certamente
il conflitto in Palestina è complicato, e continua a esserlo sempre
più come un vitigno che col passare del tempo intreccia in maniera
sempre più contorta i propri rami. La difficoltà sempre crescente
della questione porta a una ricchezza di possibili interpretazioni e,
per paradosso, invoglia chi la segue a prendersene una, propria o
presa in prestito da qualcun altro, magari famoso e influente,
piuttosto che provare a dipanare la matassa che si trova di fronte.
Romanzare interiormente la guerra è facile, da' consolazione e
soddisfazione e spesso fa' sentire meglio dal punto di vista morale
(perché ovviamente si andrà a sostenere il bianco, il buono, e, di
conseguenza, ci si sentirà un po' più buoni a propria volta).
Molti
esponenti pubblici lo sanno, fiutandone l'affare. Cosa potrebbe
accomunare Giuliano Ferrara, direttore de il
Foglio, e
“O' Zulù” (Luca Persico all'anagrafe), frontman dei 99
Posse,
rispettivamente pro Israele e pro Palestina? Il fatto che
probabilmente, se fossero lontani da sguardi indiscreti, si
concederebbero un bel brindisi ad ogni nuova bomba su Gaza o a un
razzo Qassam
che riesce a superare l'Iron
Dome e a
colpire una casa israeliana. Un attivismo debitamente pubblicizzato
porta parecchia fama in aggiunta alla propria opera professionale, ed
ecco Ferrara ringalluzzito e tornato alla ribalta con le sue
fiaccolate a sostegno del diritto alla difesa di Israele in un clima
di “progressivo
isolamento ideologico e sentimentale di Israele e degli ebrei
nell’opinione di massa in Europa”
da una parte, e O' Zulù dall'altra che apparentemente si lamenta di
come la denuncia politica dei crimini sionisti contro i palestinesi
in Italia sia ormai appannaggio di un gruppo musicale, il suo,
naturalmente.
“Opinion
matters”, e mai come in questo caso il rapporto tra chi assiste e
chi prende parte al conflitto si fa viscerale. Sia Israele, sia
Hamas, hanno un disperato bisogno di legittimazione internazionale,
in un contesto sempre più caotico e instabile quale il Medio
Oriente. Gerusalemme vuole togliersi la nomea di paese aggressivo e
colonialista che si sta cucendo dopo i trionfi contro le coalizioni
di paesi arabi vecchi ormai di trent'anni. A Gaza invece Hamas cerca
di staccarsi definitivamente dall'associazione a organizzazione
terrorista sancita da Europa e Stati Uniti per farsi riconoscere come
nuovo interlocutore politico per i palestinesi al posto dell'ormai
screditata, dai palestinesi stessi, Al-Fatah.
Ci
potrebbero quindi essere le condizioni perché le spinte verso la
pace invocate da milioni di voci sparse nel mondo possano realmente
avere effetto, influenzando i rispettivi governi a spingere
israeliani e palestinesi verso la ragionevolezza.
Purtroppo,
una visione sempre più scenica del conflitto sta portando a un
rapporto simbiotico tra la radicalizzazione delle posizioni delle
parti in causa e la radicalizzazione di chi sostiene una delle due
parti. Oggi, più che “sostenere la pace”, si parla di “sostenere
Israele” o “sostenere la resistenza palestinese di Hamas”,
senza se e senza ma, fino a una non meglio precisata vittoria finale.
Il
risultato è che i decisori politici, per calcolo politico o reale
convinzione, si lasciano prendere dalla foga di piazza. Un'Europa
dove un deputato francese, Jacques Renaud, dichiara i morti
palestinesi come “carne halal” e un deputato britannico, George
Galloway, dichiara la città presso cui è stato eletto, Bradford,
“Israel free-zone” (abitanti compresi), non può certo
considerarsi affidabile nel moderare eventuali trattative di pace
(cosa che, in sua vece, sta stoicamente facendo da solo l'Egitto del
discusso Al-Sisi).
Un'ultima
peculiarità che rende il conflitto israelo-palestinese tanto
popolare alle masse è proprio quella che riguarda solo gli
sventurati abitanti di un fazzoletto di terra grosso quanto la
Campania. Un conflitto ha maggiori probabilità di essere idealizzato
e spettacolarizzato tanto più è lontano nel tempo e nello spazio.
Solo nel corso del novecento gli stati hanno compreso il potere
dell'idealizzazione, cercando di sfruttare la propaganda per ottenere
lo stesso effetto tra i cittadini e i soldati direttamente impegnati
in guerra, col solo risultato, tuttavia, di confermare il fatto che
si può vivere il conflitto come un'epica soltanto quando il fischio
delle bombe che si ascolta è il sonoro di un filmato e non reale.
Per tale ragione, i filmati di propaganda durante la seconda guerra
mondiale oltre a dare sempre risultati incoraggianti dal fronte, si
premunivano di rappresentare il luogo degli scontri come un posto
lontano, se non un vero e proprio non luogo. Questo fattore, seppur
in forma meno pervasiva, è ripreso dai media attuali. Ai tempi delle
guerre civili jugoslave mai i Balcani apparivano come lontani per gli
italiani che seguivano un conflitto a pochi chilometri di distanza
con gli stessi mezzi e la stessa mentalità di un qualsiasi conflitto
che sarebbe potuto dall'altra parte del Mondo (tornando al conflitto
israelo-palestinese, è preoccupante come nel nostro paese sembra che
si ignori come la guerra di cui tanto si parla si trova sulle rive
dello stesso mare su cui ci affacciamo anche noi).
Omero,
il precursore dell'epica di guerra, cantava di un conflitto la cui
memoria era tanto lontana da essere confusa con la leggenda. Al
giorno d'oggi, abbiamo circa una decina di milioni di essere umani
coinvolti direttamente nel conflitto israelo-palestinese a fronte di
circa sette miliardi di spettatori, i quali hanno una piuttosto
solida certezza che rispetto al conflitto resteranno nient'altro che
spettatori, concedendosi dunque il diritto di parlare e stra parlare
quanto più gli aggrada sui fatti che avvengono in Palestina.
Poiché
questi sono i tempi non del villaggio, ma dell'arena globale,
esattamente come i sanguinari spettatori romani degli antichi
anfiteatri, ciò che arriva in Palestina al centro degli occhi
puntati dal resto del mondo sono perlopiù strepiti e urla di chi,
più o meno sfacciatamente, vuole che lo spettacolo continui, e poco
importa se la sceneggiatura del più grande evento mediatico di
quest'anno viene scritta passo per passo col sangue.
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